La scuola e i giovani nel Rapporto Istat 2009
Sarebbe davvero interessante sapere quale potrebbe essere l’opinione del Ministro Gelmini e dei suoi collaboratori in merito ai dati più rilevanti pubblicati dall’Istat in tema di istruzione-formazione-condizione giovanile. I dati sono davvero molti e offrono l’opportunità di tanti approfondimenti in varie direzioni. Selezioniamone alcune.
1) Quello già reso noto da fonti di informazione è relativo alla dinamica che spinge una quota rilevante di giovani (sette milioni tra i 18 e 34 anni, con percentuali che vanno dal 90% nella fascia 18-19, al 30% per la fascia 33-34 anni) a rimanere a lungo in famiglia. La famiglia, insomma, ammortizzatore sociale fondamentale per i nostri giovani; ma anche espressione di una condizione giovanile che evidenzia un profondo disagio e sulla quale molto ci sarebbe da riflettere. Colpisce poi tra i giovani quella quota di poco più di 2 milioni (il 21,2% della popolazione tra i 15–29 anni) che non lavora e non studia (generazione “Neet”); un’area critica in cui il prolungarsi di questa condizione può essere l’anticamera di diversi profili di emarginazione/esclusione. Certamente, in ogni caso, esprime senza dubbio un processo di disinvestimento nel “capitale umano” che stride fortemente con i proclami di Lisbona 2000.
2) L’analisi dei dati delle fasce d’età e relativo conseguimento dei titoli di studio evidenzia una crescita molto, troppo lenta, dei livelli di formazione nel Paese; lo svantaggio verso la UE aumenta. L’unico dato positivo è la conquista diffusa della licenza media, fuori da ogni condizionamento sociale, dopo un quarantennio e più di obbligo scolastico a 14 anni; ma appena ci si inoltra verso i titoli superiori, l’appartenenza alle classi sociali diventa determinante: l’Italia non ha ancora un sistema vero di pari opportunità formative per tutti; anzi, il ritorno a percentuali significative di bocciati e dispersi nel 2008-09 (con punte davvero drammatiche nel Mezzogiorno), spiega una torsione punitiva, selettiva, delle recenti dinamiche di sistema ma anche il pauroso “buco nero” costituito da una scuola media in cui, al di là di operazioni formali consumate in questi anni, la struttura organizzativa del modello e la didattica prevalente (di tipo individualistico/disciplinarista) fanno a pugni con i processi di apprendimento non formale e informale in cui sono immerse le nuove generazioni.
3) Sconvolgenti, infine, alcuni dati sulla condizione culturale, formativa dei nostri giovani e la grave arretratezza del sistema di istruzione/formazione. Nel 2009, il 13,2% dei giovani tra i 15-29 anni (oltre 1 milione, 2%) dichiara di non aver letto neanche un libro o di non aver mai utilizzato il computer. La esclusione dalla lettura dipende fortemente dalle caratteristiche della famiglia di origine e dagli stimoli che essa sa offrire; se questa è cosa nota, stupisce l’irrilevanza della scuola in questa dinamica; è come se il sistema avesse rinunciato a contrastare le diseguaglianze, a discriminare in positivo. Anzi, stando sempre ai dati Istat, “sembra confermata l’esistenza di un meccanismo di autoselezione che orienta le iscrizioni dei meno brillanti verso gli indirizzi tecnici e professionali e quelle dei più capaci verso i licei…” (pag. 197). Ovvero le politiche dell’orientamento sono vicino allo zero; gli studenti continuano a essere “dirottati” (non orientati) verso i livelli di istruzione superiore da docenti della scuola media e dalla valutazione conclusiva dell’esame del primo ciclo. Guarda caso, questo dirottamento corrisponde precisamente all’estrazione socioculturale delle famiglie di origine. Stiamo cioè tornando, non nel dibattito ideologico ma nei processi reali, a una nuova stagione della “scuola di classe”.
4) “L’alfabetizzazione informatica avviene in ambito familiare o nel mondo dei pari” (pag. 194). Quindi se 1,7 milioni di giovani dichiara (tra i 15-29 anni) di non aver mai usato un computer, vuol dire che stiamo descrivendo una condizione che riguarda il 4,8% dei giovani con un padre “dirigente” e il 18,6% dei giovani con un padre “operaio”; con processi che coinvolgono il Nord (13,6% ) e il Sud (24%). La scuola dunque non è in grado di incidere su questo processo di fondamentale alfabetizzazione dei giovani, salvo le dovute eccezioni. Molti docenti, peraltro di età avanzata, sono tagliati fuori dal processo di cambiamento. Non ci sono né risorse né progetti di investimento su uno scenario che peserà sul valore competitivo del nostro Paese e, soprattutto, sulle condizioni di vita di tanti giovani. Ma tutto ciò forse non importa a quei decisori politici convinti che in fondo, chi “ha i numeri” (si leggano il rapporto, così capiranno bene chi sono costoro) arriverà senz’altro alle agognate mete.
Vogliamo continuare a sperare che ad altri attori sociali e politici, questi dati offrano una nuova occasione per ritrovare in primo luogo le parole e le idee per tornare a parlare al mondo della scuola.
Dario Missaglia