“Tempeste e approdi”, la recensione
Antonio Tabucchi, che ha curato la quarta di copertina del libro, apprezza fortemente l’opera, ma riconosce di non sapere bene a quale genere letterario appartenga. In effetti, penso che l’autrice stessa non si sia posta questo problema. Ed è proprio questa indeterminatezza che costituisce la… determinatezza e l’originalità del volume, o meglio della appassionata ricerca che l’autrice conduce su un tema che poi è il motivo fondante, tragico e meraviglioso insieme, della nostra vita. Quindi, la tempesta e l’approdo, il naufragio e la salvezza, ricercata o ottenuta, come tema fondante: un tema che attraversa da sempre tutte le culture, tutte le religioni. Ed è proprio qui, a mio vedere, l’originalità del libro: che è una ricerca ad ampio spettro, indubbiamente appassionata, colta e raffinata, ma che è anche un racconto, o meglio una serie di racconti, il cui leitmotiv è quello che si dipana in ogni cultura come ricerca della felicità, a ogni costo, nonostante le avversità che ci vengono proposte: dal fato, dagli dei, da un dio, dal destino? Non è dato saperlo, e questo interrogativo non preoccupa affatto l’autrice. La risposta è nella ricorrenza stessa del binomio naufragio-rinascita, che attraversa costante tutte le culture che l’uomo ha prodotto nel corso della sua storia.
E proprio in questo consiste la ricerca dell’autrice, ricerca che non può non coincidere con il piacere di narrare che la caratterizza. L’originalità dell’opera è proprio in questo: riuscire a dire, o meglio a disvelare, delle verità fondanti del vivere, del sopravvivere e del morire senza scegliere l’ambizione del saggio ma l’immediatezza e la freschezza della narrazione. Il naufragio, dunque, come metafora della vita stessa, di ciascuno di noi, anche se nessuno di noi è Giona o Ulisse o addirittura Pinocchio: anche lui ha a che fare con naufragi e balene! Infatti, ciascuno di noi ha i suoi naufragi e i suoi approdi, anche se non fanno storia né leggenda né mito: sono le costanti del vivere quotidiano. “Chi non si è mai sentito in balia delle tempeste della vita, perso, naufrago, incapace di trovare un possibile approdo, di sperare in una salvezza? A volte coloro che hanno provato questo smarrimento hanno avuto l’intuizione che da lì, oltre le onde potesse iniziare la ‘rinascita’. S’impara molto dall’esperienza di una perdita totale” (p. 9). Rinascita quindi non sempre come resurrezione, come rivincita, ma come consapevolezza di avere appreso qualcosa di nuovo: la verità come bene, forse. Di fatto, è l’antinomia che ha sempre preoccupato i filosofi di ogni tempo.
È come se la risposta agli interrogativi degli uomini di ogni tempo, interrogativi che poi hanno trasferito alle loro credenze, ai loro miti, alle loro religioni, fosse proprio in questa ricorrenza di tempeste e approdi, che ritroviamo nei Veda come nella Bibbia, nei miti omerici come nell’inferno dantesco e – horribile dictu – anche nella esperienze tragiche del nostro tempo: il Primo Levi che trova nei libri la via del riscatto da quel naufragio dei campi di concentramento che non il Fato né gli dei né più semplicemente la sorte, ma l’uomo stesso è stato capace di creare! Accostamenti audaci quelli operati dall’autrice, ma più che giustificati! Accostamenti a cui forse nessuno di noi aveva pensato! A cui, però, ha pensato Antonio Tabucchi quando si domanda, molto retoricamente: “È una visita guidata delle umane sciagure di cui la letteratura ci mostra il potere salvifico?” A cui risponde con un “forse”: che costituisce poi la chiave di lettura del libro. In effetti, non si naufraga solo per mare: e il libro della Mannocchi non è solo una rassegna dei grandi naufragi della letteratura! In effetti, se è vero che questa è una società liquida, consapevolmente liquida e incerta, come ci dice Zigmunt Bauman, l’autrice coglie nel segno: e ci aiuta a immergerci in questa liquidità che sempre ci ha lusingato e illuso e che oggi ci si rappresenta in tutta la sua drammaticità. È un libro, quindi, che ci aiuta meglio a capire il come e il perché di questa nostra incerta surmodernità, per dirla con Marc Augé.
È un saggio, quindi, sulla nostra società contemporanea in chiave di racconti e riflessioni. Tanti sono i personaggi ricercati e recuperati in questa rassegna dei loro drammatici e significativi vissuti: Giona, Gilgamech, Glauco, Ulisse, i naufraghi della Medusa di Gericault, anche i nostri Renzo e Lucia e tanti altri. Ma la vicenda che più mi ha colpito, per la drammatica attualità con cui rappresenta le estreme incertezze del mondo contemporaneo è quella di Truman, di quel “The Truman Show”, il film di Peter Weir che noi tutti abbiamo visto oltre dieci anni fa. In una società liquida anche il naufragio è liquido, è falso! Oppure è un doppio naufragio, forse un vero autentico naufragio da cui è difficile scampare. Come se l’età dell’informatica, del web e delle loro diavolerie, l’età in cui sempre più pericolosa si fa l’endiadi che vuole ed impone che il mezzo sia il messaggio, riesca a rendere sempre più difficile trovare un approdo dopo una tempesta. Com’è noto, Truman, dopo avere scoperto la falsità del mondo che Christof gli ha costruito fin dalla sua nascita, si salva riuscendo a fuggire da quella cupola che per anni per lui ha rappresentato il cielo, quel cielo stellato sopra di noi che un tempo stupiva Kant e che oggi difficilmente riusciamo a vedere: con le nostre luci artificiali siamo riusciti anche a offuscare le stelle! Potremmo anche dire, con un briciolo di amara ironia, che non ci sono più i naufragi di una volta!
E qui c’è la riflessione caustica della Mannocchi: “Il film non è solo una denuncia dei reality show che falsificano il nostro rapporto con la realtà, per cui è vero solo ciò che lo schermo rappresenta come tale. Il film ci interroga su che cosa costruisca oggi la nostra identità di individui, il nostro appartenere a una cultura, a un gruppo sociale. Truman vive in un mondo in cui tutto è perfettamente riconoscibile, ogni ruolo è nettamente stabilito, programmato, ma ciò non lo rende felice, appagato. Nella sua vita mancano il caos, l’imprevisto, lo straniero, l’amore: gli strumenti cioè che portano a una consapevolezza profonda di sé, ad uno scavo individuale nella propria storia che va oltre le apparenze” (p. 151).
E allora, questa società liquida e sempre più incerta, in cui a veri naufragi di milioni di disperati si associano naufragi demenzialmente immaginari, segna forse la fine di un mito! C’è chi naufraga veramente, senza illusioni di sorta, e c’è chi si illude di naufragare! Sono allora stravolte millenarie categorie dello spirito? E la Mannocchi ne suggella il tramonto? Non voglio azzardare ipotesi! Ciò che è certo, e che balza evidente dal libro, è che oggi possiamo scoprire che le mille culture che abbiamo prodotto nei millenni, pur diverse tra loro, a volte nemiche, hanno avuto forti momenti comuni, di cui l’escatologia del naufragio ha costituito un forte collante. E il naufragio oggi assume pericolosamente una consistenza da cui nessun mito ci potrà più salvare: è questa un’affermazione, una riflessione, un interrogativo? È un insieme di sollecitazioni che il libro stesso ci suggerisce e ci propone: in effetti è un messaggio che forse va oltre l’intenzione stessa dell’autrice! Un libro che diverte – ma alla latina – e che soprattutto fa meditare!
Maurizio Tiriticco