“Storia sociale della conoscenza”
Voltaire avrebbe iniziato con “savez vous qu’est-ce que c’est la connaissance”? Cos’è la conoscenza? Non smettiamo di domandarcelo e specialmente oggi che essa ha assunto un ruolo di primo piano e che la nostra epoca è definibile come società della conoscenza, alla cui base vi è l’economia dell’informazione. Come punto di partenza dovremmo assumere per ogni cultura un plurale, dovremmo parlare di conoscenze. Non sfugge a Burke – docente a Cambridge, autore de “L’arte della conversazione e Cultura e società nell’Italia del Rinascimento” – , la difficoltà di un saggio storico sulla conoscenza, data anche la diffidenza degli studiosi, soprattutto degli storici, nei confronti della sociologia della conoscenza, un campo di mille fiori, un insieme di discipline o sottodiscipline quali la bibliografia, la storia della scienza, la storia della lettura, la storia intellettuale, la storia della cartografia e la storia della storiografia. Tuttavia è stata proprio la lacuna di questa disciplina nella letteratura accademica a spingere l’Autore a misurarsi con una serie di saggi sui nodi di una possibile storia, cercando di evitare sia il grafocentrismo (ossia la primazia della conoscenza scritta) sia il logocentrismo (quella della cultura orale). Il saggio – che per convenienza usa il termine crudo per quanto è specifico e pratico, il termine cotto quanto è elaborato e sistematizzato dal pensiero –, si basa su testi pubblicati fra il Cinquecento e il Settecento, con un apparato bibliografico di tutto rispetto, e vuole piuttosto evidenziare quali sono i punti di partenza alla luce di una considerazione basilare, ossia che nell’Europa della prima età moderna, l’esplosione e l’accumulo di conoscenza, seguita all’invenzione della stampa, ai grandi viaggi, alla cosiddetta rivoluzione scientifica e così via, risolse alcuni problemi e ne creò degli altri. Né più né meno di quanto accade oggi.
La storia sociale della conoscenza (auspicata da Auguste Comte come storia senza nomi, e battezzata dai tedeschi “sociologia della conoscenza”) è “storia del passaggio da sette spontanee a chiese stabilite, è la storia dell’interazione tra marginalità e ufficialità, tra dilettanti e professionisti, tra chi promuove attivamente la cultura e chi si accontenta di dormire sugli allori”. Non dormivano sugli allori, le città italiane (la città è un elemento determinante nell’economia di accumulo e diffusione di informazioni) come Venezia, per i suoi commerci, Roma per la presenza del papa e di svariati ordini religiosi, che creavano centri istituzionali di conoscenza quali le università, le biblioteche e gli archivi, senza trascurare stamperie e gazzette che inventarono nuove professioni e aiutarono scrittori e studiosi sulla via dell’emancipazione dal principe e della autonoma lettura della loro società. Anche se dovranno passare ancora alcuni secoli perché la maggior parte di studiosi ed eruditi non fosse più costituita da uomini di chiesa. In Occidente cicli innovativi si sono alternati a periodi di routine, ma complessivamente questa parte del mondo non ha opposto all’innovazione tecnologica la forza che vi ha opposto l’Islam, dove pure la classe degli specialisti del sapere godeva di posizione onorevole nella società.
Narra Burke che nel 1654 un sinologo italiano cattolico incontrò a Leida un arabista olandese protestante, i due si interessavano di problemi di cronologia comparativa, ovvero di sincronismo; l’uno non conosceva l’arabo, l’altro non conosceva il cinese, si intesero quando tradussero la loro opera in latino. Un bel romanzo è costituito dal saggio sulla distribuzione spaziale, i luoghi in cui il sapere fu scoperto, conservato, elaborato e quelli in cui venne diffuso: dalle librerie alle biblioteche (i bibliotecari come agenti del progresso del sapere universale), alla bottega del caffè, ai barbieri, insomma i luoghi di ritrovo, specialmente quelli della città (ente che necessita di servizi e di burocrazia) che hanno facilitato l’interazione fra uomini d’affari e uomini di studio, tra gentiluomini e artigiani. E poi le colonie, lo scambio centro periferia, l’importazione e l’elaborazione della conoscenza ovvero la compilazione, il calcolo, la classificazione e la critica. Sapere, sapere: sapere teorico e pratico, scientia e ars (“ars sine scientia nihil est”), sapere pubblico e sapere privato (dai segreti di stato agli arcana naturae), sapere liberale (come la conoscenza dei classici latini e greci) e sapere utile (ovvero le arti meccaniche), un vortice che smuove e genera novità. Il sottotitolo del saggio è “da Gutenberg a Diderot” il bello, ossia la complessità di una clerisy europea che al suo interno si differenzia accompagnata da conflitti tra i diversi gruppi, deve ancora venire.
Il libro:
• Peter Burke, Storia sociale della conoscenza, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 348.
Graziella Falconi