Emma Castelnuovo: come la matematica entra nella realtà della vita
Non amo i necrologi, né le celebrazioni ma le feste sì. Di Emma a un giorno dalla morte non posso che parlare emotivamente, spero però con il tono della festa per una persona che mi ha dato molto, che ha dato molto ai sui allievi e che ha dato molto all’umanità.
La prima volta che sentii parlare di Emma fu durante il corso di Algebra astratta da parte del suo grande amico Lucio Lombardo Radice il quale ci indicò questa professoressa della scuola media “Tasso” come un esempio da seguire se si voleva diventare docenti di matematica.
Al terzo anno di università ritrovai il suo libro “Didattica della matematica” nella bibliografia del corso di pedagogia di Aldo Visalberghi e alla fine fui ammesso, dopo una selezione formale di una commissione presieduta da Bruno de Finetti, a seguire la sua didattica in classe.
Il primo appuntamento fu alle 7,30 al “Tasso” in sala docenti, lei arrivava a quell’ora perché nulla era improvvisato.
Un portamento aristocratico ma austero ed esigente, nessun cedimento al volemose bene, un rapporto rassicurante e discreto con i ragazzetti che popolavano le sue classi, ma anche con noi studenti universitari dell’ultimo anno, che eravamo lì a preparare la nostra tesi orientata alla didattica.
Quell’anno fui fortunato perché lei decise di realizzare per la prima volta un’esposizione dei ragazzi, un evento in cui i ragazzi dovevano spiegare agli adulti, ai genitori ma anche ad altri docenti la matematica che avevano appreso nelle sue classi. C’era in quella scelta una motivazione pedagogica, era coerente con una visione attiva e comunicativa dell’apprendimento: sei realmente competente se sai parlare delle cose che sai fare, ma c’era anche una motivazione più “politica”.
La sua didattica faticava a essere accettata in un momento in cui la “nuova matematica moderna” tendeva a privilegiare l’approccio astratto della formalizzazione algebrica, secondo la scuola francese. Così a quella mostra invitò anche molti suoi amici della CIEAEM, la commissione che costituiva un cenacolo internazionale di docenti universitari e d’insegnanti di scuola sull’insegnamento della matematica.
Doveva far vedere a tutti cosa era possibile fare in classe, quanto i ragazzi potessero apprendere, come potessero crescere e diventare grandi cimentandosi in un apprendimento difficile ed esigente come quello matematico.
Aprire le porte del Tasso serviva anche a mostrare che quella non era una scuola speciale per figli di professionisti, ma una scuola statale aperta a tutti.
Tre anni più tardi l’esposizione fu replicata e molti materiali prodotti per quell’occasione finirono in un libro dal titolo “La matematica nella realtà”. Quel titolo è rimasto la sintesi più usata per definire la didattica della matematica di Emma Castelnuovo.
Solo durante la festa per i 100 anni ho capito più a fondo il significato di quello slogan, non voleva dire solo matematica meno formale, matematica meno astratta, matematica più motivante, più applicata e applicabile, meno zeppa di esercizi ripetitivi, più interessante, più utile, meno imposta, meno imparata mnemonicamente, più amata, meno subita, meno pura e più sporca e più legata ai problemi. Significava una scelta più vitalmente profonda, per lei la matematica era lo strumento per legarsi alla realtà della vita, il contrario della fuga dell’astrazione elitaria, il radicamento nell’umanità degli intelligenti, dei meno intelligenti, dei ricchi e dei poveri.
Come scriveva il suo amico Hans Freudenthal, la matematica come compito educativo per menti che devono crescere, diventare adulte e pienamente umane.
La sua didattica così intrisa di realtà e permeata di umanità, veniva da lontano dal suo milieu familiare, il padre era Guido Castelnuovo, lo zio era Federico Enriques e si era purificata nel crogiolo della persecuzione razzista del nazifascismo.
Cominciò a insegnare nella scuola clandestina per ebrei a Roma, per tutta la vita ha sentito vivo quel trauma come l’abisso in cui può piombare l’umanità se perde la luce della ragione e della solidarietà.
Ricordo con emozione che guidavo quando nel 1976 andammo in carovana, con varie macchine, a Karlsrhue. Era la prima volta che Emma Castelnuovo metteva piede in Germania dopo la guerra, fu un trauma contenuto e nascosto di cui percepimmo però il peso in piccole cose che noi nati dopo la fine della guerra non ne capivamo il significato.
Solo nella festa dei 100 anni ho capito perché era innamorata ed entusiasta dei suoi amici belgi, dell’Ecole Decroly e del geometra Paul Libois, perché nutriva per l’accademia matematica italiana una specie di orgogliosa diffidenza.
Quando in giro per l’Europa dilagarono le leggi razziste per l’esclusione degli ebrei dagli incarichi pubblici l’Unione Matematica Italiana sollecitò la messa a concorso dei posti lasciati liberi dai professori ebrei che erano stati allontanati, mentre l’analoga associazione belga decise le dimissioni in massa anche dei docenti non ebrei. L’amico Paoul Libois, che aveva ispirato l’idea dell’esposizioni di matematica visto che a Bruxelles le organizzava ogni anno, era medaglia d’oro della resistenza.
Questa tempra, queste ferite nascoste, la portarono in Africa a insegnare anche là la matematica era stato strumento di liberazione e riscatto.
Nell’ultimo incontro, che avemmo io e Lucilla pochi giorni prima del compleanno, restavano gli occhi vispi e pungenti, l’interesse per il mondo e l’interesse per i giovani: “allora ditemi, cosa fanno i vostri figli?”.
In occasione dei 100 anni l’Unione Matematica Italiana ha pubblicato un numero speciale della sua rivista “La matematica nella società e nella cultura”, dal titolo “Emma Castelnuovo l’insegnamento come passione”.
Raimondo Bolletta