Che fatica essere Pinocchio!

Certamente se la fama di un semplice e comunissimo pezzo di legno ha riscosso tanta popolarità negli anni devono esserci validi motivi che hanno indotto scrittori, giornalisti, mondo dello spettacolo, insegnanti a tenere in considerazione una favola che sembra non aver raggiunto ancora il suo tramonto.

Benigni ne ha ironicamente simboleggiato il personaggio, Umberto Eco lo ha elogiato creando un tautogramma, composizione realizzata con parole che iniziano tutte con la stessa lettera, Disney ne ha realizzato un capolavoro cinematografico e così via per tante altre voci che hanno avuto il loro alito di compartecipazione.

La storia di Pinocchio è dunque un simbolo comune di ogni generazione. La metafora bambino-burattino che rappresenta un ideale percorso di formazione segnando il passaggio dall’età prescolare a quella scolare.

Si deve tenere conto che Pinocchio uscì negli anni ’40, in periodo di guerra e pertanto sono tanti i riferimenti all’epoca: dalla balena, che in originale era un pescecane, richiamo alla Guerra, che inghiotte tutto ciò che le capita a tiro; al Paese dei balocchi, il mondo tanto proclamato dai promotori della guerra ma che alla fine si trasforma nell’essere più infimo del mondo. La qualità delle invenzioni fiabesche del Collodi è diversa dalle altre favole: come tutte le favole inizia con: “C’era una volta…” ma, questa volta, non ci sono né re, né regine, bensì un comunissimo pezzo di legno. Una storia, tutta imprevedibile, sottratta a quei sentimenti e a quelle passioni precise e dal forte rilievo o dall’accento poetico, che sono il particolare terreno letterario dei bozzettisti. Collodi viene attratto dal piacere delle stranezze, delle singolarità e il suo incanto è quanto d’umano sa suggerire o rappresentare pur su un piano di libertà, ingioiellato dal capriccio della fantasia.

Le opere libere da programmi e preoccupazioni di letteratura infantile nacquero dalla sua attività giornalistica forse sul modello di quella narrativa giornalistica, leggera, fluida e forse anche un po’ mondana.

Mi piace riportare un piccolo pezzo della favola che a mio avviso sintetizza l’aspetto didascalico del ruolo che riveste il romanzo. Dice Pinocchio rivolgendosi al padre: “’Levatemi una curiosità, babbino: come si spiega tutto questo cambiamento improvviso?’ – gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci. ‘Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo’ – disse Geppetto. ‘Perché merito mio?’. ‘Perché quando i ragazzi da cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie’. ‘E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?’. ‘Eccolo lì – rispose Geppetto: e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte con le braccia ciondoloni e con le gambe incrociate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto. Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza: ‘Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come ora sono contento di essere diventato un ragazzino perbene!’”.

È noto che le fiabe, oltre a incantare i bambini che si tuffano nel loro mondo fantastico, hanno il compito di offrire un messaggio educativo e morale.

Questa favola, come molte altre, intende aiutare il percorso educativo volto a migliorare i comportamenti legati agli stili di vita. I vari eventi descritti o rappresentati nella favola mirano a indirizzare i comportamenti dei bambini verso scelte certamente più giuste e valide, offrendo la possibilità di scegliere un giusto modo di vita. Il racconto di Pinocchio permette di relazionarsi con le piccole difficoltà quotidiane, con il mondo degli adulti e con le proprie responsabilità di bambino. Il trasformismo di questo bambino nato da un pezzo di legno che si anima e che percorre, vuoi per scelta, che per casuali incontri e particolari circostanze, ne fanno l’esempio più eclatante del percorso che ogni persona attraverso nella propria vita. Smarrimenti, affetti, abbandoni, buggerature, falsi entusiasmi, paure, ma soprattutto scelte. È la scelta, a mio avviso, che domina “Pinocchio”. La scelta di una vita che possa essere la realizzazione dei suoi reali sogni e tenore di vita. Una vita di affetti veri e non di effimeri successi che si sciolgono come neve al sole.

E le scelte, come tutte le scelte spesso passano attraverso sentieri non sempre deontologici. Esse sono il risultato di difficili periodi in cui ci si perde, non si trova la propria giusta dimensione e ci si affida o a persone (vedi il gatto e la volpe) o a situazioni (vedi il paese dei balocchi) nelle quali si crede erroneamente di aver trovato la felicità, per poi accorgersi che si è completamente estranei a qual mondo, tale da sentirsi non protagonisti ma ospiti. Ed è proprio allora che scatta la scelta che da sempre si rincorre e che spesso non si riconosce.

Freud sosteneva che le fiabe sono come i sogni; rappresentazioni mitiche, e come qualsiasi contenuto proveniente dall’Es che cerca di prevalere aggirando la censura dell’Io. Il sogno, quando vuole alludere alla negazione di una situazione, ci presenta una scena e la ridicolizza. Ovvero: questa è la scena, ma ci fa ridere, quindi è come se ci dicesse: “non ci credete, ma interpretatela all’incontrario”. Il sogno sta operando un’inversione, strumento peculiare di questo, come lo spostamento e la condensazione.

Abbiamo visto come questo avvenga continuamente nella fiaba di Pinocchio. La volpe e il gatto dicono di essere ciechi e zoppi perché avevano studiato troppo e ammiccano, e si ride di ciò perché sappiamo si deve invertire il significato, ovvero aggiungere la particella non, che nella rappresentazione onirica non esiste. Il giudice gorilla manda Pinocchio in prigione perché era stato la vittima, era stato derubato degli zecchini, e anche lì si ride perché sappiamo che Pinocchio finisce in prigione come il ladro degli zecchini paterni.

Dunque se la fiaba di Pinocchio ha interessato personaggi di cultura e di scienza, di spettacolo e di arte, di gente comune e non, credo che valga la pena lasciare uno spazio sempre aperto e di continua attenzione a un racconto che non avrà mai fine, perché imperniato su valori universali.

Articolo in collegamento con il progetto Pinocchio 2.0:
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Anna Letizia Galasso