In prima elementare quando nacque la costituzione (1 parte)
Nel 1948, quando nacque la Costituzione, andavo in prima elementare, alla “Mazzini” a Roma, con un grembiule blu, un colletto rigido dal quale usciva un fiocco bianco, e sul braccio un’unica strisciolina di cotone che mia madre aveva cucito a indicare che facevo, appunto, la prima.
Non era una gran cucitrice, mia madre, e la stanghetta le venne un po’ storta, ma non mi importava: io stavo andando a scuola! La situazione, se non era proprio quella di Alice che attraversa lo specchio e s’imbatte in un mondo fantastico, ci somigliava terribilmente.
Ripensandoci a distanza di anni direi che il paradosso della scuola è tutto nella contemporanea presenza di due fattori: quello della sua ordinarietà e della sua straordinarietà. Perché varcata quella soglia niente più sarà come prima e avrà inizio il grande spettacolo della metamorfosi del nostro corpo e della nostra mente.
A sei anni, nel 1948, io e i miei compagni non sapevamo leggere e quanto a scrivere pensavamo che fosse un’astrazione irraggiungibile, ma con quel buffo grembiule “da femmine” – che lo avevano infatti identico, ma, au contraire, era bianco con il fiocco blu – e una cartella marrone di cuoio rigido, la mattina attraversavamo tutti lo specchio al suono di una stridula campanella. I grembiuli blu separati dai grembiuli bianchi, una distinzione cromatica che anticipava già la divisione in classi maschili e classi femminili, che ci sembrava buffamente naturale.
Credo che, a dispetto della totale diversità delle forme e dei contenuti quella piccola epifania non sia andata ancora perduta anche se facciamo del tutto per ridurla a una banale consuetudine, un rito stanco celebrato da una minoranza di adepti.
Con la differenza che nella scuola non c’è proprio quasi nulla di rituale e, nonostante le apparenze, dentro le sue stinte mura si muovono una moltitudine di pensieri, di persone, di sentimenti, di storie, di insegnamenti, di relazioni, di colori e di immagini… insomma un caleidoscopio di vita le cui combinazioni rimangono a lungo nella memoria.
In quella cartella di cuoio c’era l’astuccio di legno con la penna e il pennino, poche matite colorate, una gomma, il temperamatite, poi una fetta di pane e una mela in un sacchetto di carta. E, cosa più inquietante di tutte, un quaderno con una copertina nero opaco e la relativa carta assorbente.
Il quaderno nero con le righe larghe – in terza gli spazi si sarebbero fatti più stretti – sembrava costruito apposta per suscitare apprensione nello scolaro. Sopra quelle righe avremmo cominciato a tracciare incerte linee, qualche curva e i cerchietti per poi asciugare frettolosamente il tracciato con la carta assorbente. E se qualche pelo rimaneva nel pennino potevamo pulirlo nella manica del grembiule, che tanto aveva lo stesso colore dell’inchiostro.
Certo avremmo potuto contare sul fatto che l’uomo da qualche millennio aveva inventato la scrittura, ma questo pensiero non sembrava arrecarci alcun sollievo. S’intingeva il pennino nel calamaio, e si proseguiva stando attenti a non sbavare sulla pagina bianca.
Il calamaio di vetro era inserito nella cornice esterna del banco, a metà strada tra me e il mio compagno: lo avevamo in comune, partecipi di una stessa sorte, tutto il blocco compatto del banco di legno ci rendeva complici.
Uno stesso sedile, un calamaio, una stessa pedana, si trattava solo di scegliere il lato destro o sinistro del blocco, poi una volta seduti i movimenti per tutta la durata della mattinata si sarebbero ridotti al minimo indispensabile.
Le file di banchi nelle aule della Scuola Elementare Mazzini, nel quartiere Trieste a Roma, erano di solito quattro e i banchi che tutti intendevano evitare erano quelli delle due file di mezzo posti davanti alla cattedra, di compensato lucido.
Quando, negli anni ‘60 tornai in una di quelle aule, che per l’occasione erano diventate sezioni elettorali, mi guardai intorno e l’emozione del primo voto fu stemperata da un curioso pensiero, che non ho più dimenticato. Guardavo i banchi di legno provvisoriamente sistemati nei corridoi e le carte geografiche appese alle pareti, vicino agli attaccapanni di ferro battuto a cui erano stati appesi i piccoli e goffi cappotti degli anni ’50 con la martingala; tutto era rimasto più o meno uguale, in fondo erano passati poco più di dieci anni dalla mia prima elementare e la povertà di quegli arredi balzava di nuovo davanti ai miei occhi con una curiosa evidenza.
Già, il pensiero anzi la domanda che formulai nella mia testa era questa: com’è possibile che in queste stanze, con pochi e semplici strumenti, immersi in un’atmosfera di trasandata dignità, una maestra che aveva passato buona parte della sua vita professionale a insegnare ai figli della lupa, com’è possibile che sia riuscita a farci scrivere e leggere, non tralasciando troppo neanche il far di conto e a interessarci a tutto ciò che era contenuto nel favoloso Sussidiario, com’è stato possibile?
Incastrati in quei banchi scomodi la guardavamo rapiti e preoccupati nello stesso tempo mentre alla lavagna, sul versante a quadretti, ci spiegava le addizioni e le sottrazioni con un piglio severo: “la signora maestra” era esile, con una crocchia di capelli grigi sulla nuca, il gessetto tra le sue dita ossute lasciava un arabesco di segni, come strisce di nuvole nel cielo. Poi, con la sinistra, la Bonsignore, prendeva il cancellino – una fettuccia di feltro arrotolata a chiocciola – e faceva sparire le sottili nuvole nella disperazione di chi non aveva fatto in tempo a coglierne il significato.
Certo, nonostante le condizioni avverse, una sorta di fascinazione narrativa era presente nell’atmosfera dell’aula… non sempre, non per tutte le lezioni, ma spesso il livello di attenzione era alto.
Una figura femminile parlava ininterrottamente rivolta a un gruppetto di bambini: i toni non erano proprio rassicuranti e, soprattutto, non raccontava ma insegnava. E noi scolari eravamo in una condizione di dovere (imparare) e non del piacere (di ascoltare), ma era pur sempre una situazione archetipica capace di proiettare nel tempo l’immagine di una figura femminile e il potere della sua voce.
* * *
Nel 1948 la Costituzione aveva spalancato le finestre e i portoni anche delle scuole, “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, gridava con gioia l’articolo 33, mentre schiere di insegnanti e di professori universitari si guardavano allo specchio perplessi. Non solo loro certamente!
Così la signora maestra della mia scuola doveva aver raddrizzato le spalle, aggiustata la crocchia dei capelli e iniziato una nuova vita professionale… oppure, più semplicemente, una nuova vita. E anzitutto doveva aver scoperto una cosa che forse aveva sempre saputo nei suoi più reconditi pensieri, che il problema dell’educazione è il problema della libertà! Come aveva insegnato John Dewey.
Dire poi che, a distanza di tempo, quei bambini in grembiule percepissero tutto questo, è certamente dire troppo, ma nelle famiglie dopo la pioggia di piombo della guerra era spuntato finalmente il sole e con esso la voglia di portare le proprie idee all’aria aperta. E alle nostre orecchie infantili, abituate alle conversazioni dei grandi, arrivano insieme a storie avvincenti strane formazioni di parole, per lo più incomprensibili. Come dense nuvolette dalle forme più varie: erano queste “le idee” che comparivano ogni sera a cena, dopo essersi addensate durante il giorno. Era un mondo, a noi sconosciuto, quello delle idee, un nuovo mondo comparso all’improvviso.
Come avremmo mai potuto catturare quelle nuvole?
Guardavamo la nostra signora maestra con apprensione, il suo piglio era sempre autorevole, la postura eretta, pochi sorrisi e perfino qualche punta di sarcasmo quando si rivolgeva ai meno volenterosi, ma, a ben guardare, quegli occhi grigi rivelavano non di rado uno sguardo smarrito… le quattro operazioni non erano cambiate ma tutto il resto sì.
Sto parlando al plurale perché, fin dai primi giorni, in quell’aula, al terzo piano della “Mazzini” eravamo in classe, cioè ci sentivamo una classe! Tutti con un’unica stanghetta cucita sul braccio, in un istante si era verificato il passaggio dall’io al noi. Intendiamoci anche la famiglia era un noi, ma con troppa diversità di proporzioni, vuoi mettere un padre con un figlio?
In classe, invece, c’era una totale omogeneità, per di più intrappolata negli stessi banchi di legno: una condizione eccessivamente organizzata.
Forse per questo ci chiamavamo solo per cognome, e anche l’appello di ogni mattina ci identificava soltanto col cognome. Già questo fattore segnava una diversità con la situazione familiare dove rimbalzavano solo i nomignoli. Ma la diversità più grande era l’apparire di un sentimento sconosciuto (o quasi): quello dell’amicizia! Con i compagni più simili nei gusti o con quelli più dissimili, con quelli più divertenti o con quelli più curiosi, con quelli che sapevano giocare bene a palline, ma anche con quelle che erano meglio di molti maschi.
Tutto il contesto di ordine e omogeneità era diretto a far funzionare al meglio la stazione emittente, costituita dalla cattedra con la maestra, che lanciava tutte le mattine perentori segnali radio ai banchi riceventi.
La pura e semplice trasmissione del sapere deve poter disporre delle condizioni più funzionali. Eppure… eppure i segnali radio erano frequentemente disturbati da intermittenze, nessuno di noi era abituato a stare così immobile, a essere così passivo, in una parola a fare da spettatore. La TV non era stata ancora inventata e a ognuno di noi piaceva recitare piuttosto che stare a guardare.
Certo non posso dire, a così grande distanza di tempo, che ci fu un momento particolare in cui a tutto il “gruppo classe” apparve chiaramente, ma ricordo che giorno dopo giorno un’idea andava prendendo forma sempre più chiaramente nella nostra testa: che l’ingresso a scuola e la situazione in classe era tutta una scena!
I pedagogisti hanno scoperto da molto tempo che la partecipazione emotiva è un fattore essenziale nell’apprendimento e che non esiste cognizione senza emozione, facile a dirsi… Quell’ambiente di apprendimento era stato, negli anni, coscienziosamente ideato per contrastare qualsiasi partecipazione emotiva al processo educativo, perché il suo unico scopo era quello di ospitare un’educazione nazionale di Stato, con libri di Stato.
Comunque noi sulla scena c’eravamo, con i costumi, gli arredi e il copione da recitare, da interpretare… una scena semplice, essenziale e per questo più efficace. L’aspetto della teatralità della scuola è stato sempre sottovalutato nel contesto educativo, a mio modo di vedere, mi rendo però conto di aver calcato, da attor giovane, quelle scene in una stagione molto lontana e in un altro secolo.
Come quel gruppo di scolari abbia raggiunto già in prima elementare la consapevolezza di varcare, ogni giorno per una matinée, la soglia del Teatro Mazzini, di entrare in una delle sue sale e di salire direttamente su un piccolo palcoscenico, non saprei ricordarlo ma indubbiamente ci sono state alcune condizioni e fattori che hanno favorito questa percezione.
Immagine in testata La Scuola Italiana. Dal libro Cuore alla lavagna digitale – Storia della scuola a 150 anni dall’Unità d’Italia
Giuseppe Fiori