Valutazione, valutazioni: il lavoro di chi apprende e di chi insegna

In questi ultimi anni il problema della valutazione in Italia è diventato un tema molto agito e divisivo, talora poco comprensibile nella sua complessità, perché mette in campo una varietà di sensibilità, competenze, valori, istituzioni, professioni, diritti individuali e collettivi e responsabilità sociali e anche scientifiche. L’elenco potrebbe continuare, ma conviene fermarsi qui e tentare invece di riprendere una riflessione attraverso alcune memorie, basate sul vissuto e sull’esperienza di una docente anziana, che ha svolto, in ambiti  diversi e con diverse responsabilità, studi e esperienze nella sempre attuale battaglia per la piena e completa realizzazione del diritto costituzionale allo studio per tutte, tutti e a tutte le età.

Il riferimento iniziale  è stato l’assunto  forse un po’ astratto di ‘giustizia ed equità’ in un Paese che, nei primi decenni del secolo scorso, aveva cercato di dare un minimo di omogeneità al titolo di studio conclusivo della secondaria superiore attraverso un esame uguale per tutti, gestito a livello centrale con commissioni ministeriali (la riforma Gentile, R.D: 30 settembre 1923, n. 2102).Si trattava allora di equiparare i liceali della scuola statale a quelli della scuola privata, ma quanti erano questi studenti? Basti qui richiamare i risultati delle due Commissioni parlamentari, che a distanza di 80 anni (1911 / 1992), affrontarono il problema dell’analfabetismo in Italia.[1] Ma torniamo all’esercizio di memoria.

La istituzione della scuola media unica (Legge 1859 del 31 dicembre 1962) ha messo docenti (esclusi i maestri),  di fronte a bisogni di istruzione nuovi e soprattutto bisogni educativi inediti (l’alibi dell’avviamento al lavoro ovvero dell’abbandono tout court era sparito e tutti, proprio tutti,  a 10/11 anni stavano ancora lì, nei banchi). Non tutti i  docenti si sono rimboccati le maniche, cercando di modificare  il proprio insegnamento  e di verificare l’efficacia del proprio lavoro su una popolazione di studenti nuova non più selezionata. Poi è arrivata la lettera di Don Milani ed è cambiato tutto. Come è possibile agire in modo giusto e soprattutto utile a coloro che frequentano per  esercitare un diritto costituzionale   di cittadinanza se non si tiene conto che «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali»?[2]

La relazione didattica nel processo di apprendimento e la valutazione formativa

La domanda che don Milani pone anche in termini scientifici, (ricordiamo che la Lettera a una professoressa è corredata di dati e tabelle) è alla base  della valutazione formativa: ogni studente deve essere trattato con rispetto e aiutato a diventare responsabilmente consapevole di quello che via via apprende, e il docente deve misurare l’efficacia/non efficacia del suo insegnamento.

Sicuramente da un punto di vista metodologico  il ruolo formativo della valutazione nasce prima, ma è stata la riforma della scuola media unica che l’ha portata al centro, permettendo di recuperare così importanti studi (cito solo la Montessori) che, già prima e non solo in Italia, erano stati prodotti. Seguendo il  percorso della  memoria e delle esperienze, appare utile fissare alcuni aspetti che mettono la valutazione formativa al centro della professionalità docente in quanto strumento e non arma.  Soggetti e oggetti della valutazione formativa sono: il gruppo degli studenti (interessi, capacità, curiosità, performance del gruppo); lo studente singolarmente considerato e la sua performance (il suo apprendimento); il docente e la sua performance professionale; il contesto sociale in cui sono collocati (un aspetto che  riguarda anche il docente); i patrimoni culturali ed emotivi che studenti e docenti sono in grado di mettere in campo e padroneggiare; l’importanza del rispetto reciproco,  ossia il riconoscimento del ruolo di ciascuno, sia esso studente o docente, e il diritto ad apprendere, cui deve in qualche modo corrispondere una capacità professionale  che deve essere riconosciuta e spesa in modo efficace. Nella gestione della valutazione formativa  è richiesta  capacità di ascolto, elemento essenziale per la crescita e lo sviluppo di una creatività curiosa, che aiuta a scoprire strade imprevedibili seguite sia dal docente sia dal discente. Si tratta di quella capacità di ‘scoperta creativa’ che deve potersi liberamente esprimere sia da parte del docente che da parte di chi apprende.

Si potrebbe aggiungere molto di più, ma quanto sin qui accennato indica alcune delle caratteristiche essenziali del lavoro che si realizza entro relazioni educative efficaci (apprendimento / insegnamento): non affidarsi alla routine o alla casualità, ma costruire un’attività strutturata  in unità di lavoro, entro la quale sia riconoscibile la sua collocazione entro il percorso di apprendimento (da dove si parte , dove si vuole arrivare, individuazione della ‘tappa’ attuale su cui si agisce). In ogni unità di lavoro occorre poter identificare : la gradualità delle difficoltà; le aperture verso altre prospettive; i tempi prevedibili; i nessi con quanto già appreso. Le novità che spesso animano un nuovo ‘oggetto di studio’ richiedono di: raccogliere e stimolare osservazioni, interruzioni; tener conto delle possibili ragioni per cui alcuni/e non intervengono; dare il senso della importanza di quello che si sta facendo di nuovo; stabilire, dopo una discussione, quali sono gli snodi dei vari ragionamenti sui quali focalizzare l’attenzione; concordare le modalità di assessement (accertamento); proporre esercitazioni individuali specifiche, che saranno poi presentate dai singoli autori e discusse insieme alla classe per  rendere osservabili le ragioni per le quali lo studente  ha svolto, in un modo piuttosto che in un altro, tutto il lavoro o una sua parte; procedere nello stesso modo per tutti i lavori, concordare una griglia  e una scala di valutazione entro la quale collocare le varie performance degli studenti.

Che poi, alla fine, si esprima  un voto o una frase, con valore di valutazione, diventa indifferente, ma sicuramente la stessa trasparenza, che è l’obiettivo di questa procedura,  deve essere garantita in modo chiaro, senza  utilizzare  elucubrazioni giustificatorie o assolutorie (perché poi e per chi?), che impediscono a ciascuno di capire bene cosa ha fatto, cosa deve ancora fare, dove si trova, dove può allargare il suo interesse, e anche al docente di esprimere in che modo il suo supporto ha funzionato o meno  nel caso particolare, ovvero entro l’insieme della classe: dove ho sbagliato? Dove ho sottovalutato un ostacolo, una difficoltà?

È evidente che tutta la procedura, qui esposta, si traduce in un fondamentale momento formativo per il docente che, solo così, passo  passo, nei momenti di discussione può rendersi ben conto della efficacia del suo ruolo di mentore/ facilitatore. Il docente dovrà quindi dar conto in modo esplicito ed esprimere e far esprimere una valutazione della performance dello studente.

La valutazione sommativa e la certificazione scolastica

La valutazione sommativa  è riferita a un porzione ‘compiuta’ di un percorso di apprendimento o anche a un esame finale: si tratta infatti di confrontare la situazione, lo stato raggiunto, con obiettivi esplicitamente fissati a priori e relativi a un progetto coerente con un disegno di carattere complessivo.

Per il docente il punto di vista si sposta dal percorso all’obiettivo, che si voleva o  doveva raggiungere, e questo chiama  in causa anche il ruolo di chi apprende. Una valutazione sommativa che arrivi come un inaspettato verdetto, al di là del fatto che sia positiva o negativa, è una azione dis-educativa, dis-informativa che de-responsabilizza docente e studente, perché per il secondo è priva di significato, cioè inutile, e per il primo, un risultato che non lo vede protagonista.

La valutazione sommativa esprime in modo esplicito la valenza sociale del processo educativo, lo rende cioè riconoscibile nel mondo reale e ne valorizza la spendibilità entro i successivi percorsi scolastici, sul lavoro, nella vita futura.. La valutazione sommativa può essere vista come un oggetto bifronte: da un lato mantiene l’aspetto ‘privato’ (se così si può definire l’aspetto proprio della relazione formativa in classe tra docente e studente) e dall’altro comporta un aspetto ‘pubblico’, la valenza che l’istituzione le attribuisce in vista di una certificazione formale.  Se non si vuole, tuttavia,  che questo tipo di valutazione diventi campo di esercitazione per inutili contenziosi (come purtroppo spesso ormai succede nel nostro Paese), è necessario un notevole lavoro culturale per esplicitare tutte le valenze che, entro questa fase valutativa, si esprimono e che dipendono da molti fattori: come è stato impostato il lavoro nella fase della valutazione formativa; come è avvenuta la collaborazione o la cooperazione o il riconoscimento reciproco dei docenti nei collegi dei docenti e nella comunicazione con le famiglie, da un lato (aspetto privato), e, dall’altro, dalla qualità del sistema scolastico e dai contesti  istituzionali, socio-politici  e culturali di riferimento (aspetto pubblico). In fondo l’educazione alla cittadinanza, come consapevolezza della propria responsabilità e del proprio diritto, dovrebbe trovare il suo primo fondamento anche nelle decisioni assunte  a questi livelli.

In ogni caso  la valutazione sommativa diventa uno snodo cruciale nel percorso professionale del docente e nel percorso  degli studenti. Semplificando molto, il problema può essere così espresso: la partita che si gioca in tutto il percorso in cui si colloca la valutazione formativa  è  già un aspetto della valutazione sommativa, quale suo  aspetto privato, ovvero  il lavoro di apprendimento che coinvolge docente e studenti  entro un contesto istituzionale definito, ma realizzato nella dinamica  del rapporto formativo. La valutazione sommativa mette  invece in causa anche l’aspetto pubblico della scuola: infatti, il diritto all’apprendimento sancito in  in Costituzione a favore dei  singoli cittadini, ne determina la  valenza  generale  per tutta la società; per questo la Costituzione italiana prevede un esame di Stato alla fine del percorso obbligatorio, con valore  legale.

A livello di valutazione sommativa, studenti e docenti  si trovano quindi su un palcoscenico dove  gli attrezzi pubblici, con cui gli attori si esprimono ( test, prove standardizzate, prove d’esame ecc.), sono tarati in modo da assicurare il raggiungimento di   un livello culturale che garantisca il singolo soggetto,  la società in cui questa cultura viene esercitata, fruita dal soggetto stesso e dai suoi pari, e il ‘pezzo’ di società in cui  questi agisce nello stesso tempo  misuri il lavoro del docente entro la scuola e fuori da questa; è la situazione in cui tutti (docenti, studenti) devono dar conto a se stessi e alla società del risultato del  lavoro svolto.

Tutta la valutazione formativa e anche  l’aspetto ‘privato’ di quella sommativa possono essere proficuamente guidati da protocolli di comportamento, ma non certo solo da strumenti standardizzati  di valutazione, anche se la trasparenza di tutto il processo, intesa come comprensibilità dell’apprendimento realizzato nei vari passaggi richiede  forme di comunicazione condivisa e condivisibile a livello personale e sociale, mentre l’aspetto ‘pubblico’ della valutazione sommativa ha funzione di comunicazione pubblica sia come assessement  che come evaluation, aspetti che devono essere coerenti entro formulazioni definite e standardizzate.

Tra valutazione sommativa e valutazione di sistema

Il processo che ha avviato in Italia  la definizione istituzionale della valutazione di sistema trova il suo fondamento nel  Decreto del Presidente della Repubblica  275 dell’8 marzo 1999, che  riconosce l ‘autonomia delle istituzioni scolastiche  come «garanzia di  libertà di insegnamento e  di  pluralismo  culturale  e  si  sostanzia  nella progettazione e nella  realizzazione  di  interventi  di  educazione, formazione e istruzione mirati allo  sviluppo  della  persona  umana, adeguati ai diversi contesti, alla  domanda  delle  famiglie  e  alle caratteristiche  specifiche dei  soggetti  coinvolti,  al  fine   di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le  finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e  con  l’esigenza di  migliorare  l’efficacia  del  processo  di  insegnamento /apprendimento».

È il riconoscimento dell’autonomia che pone il problema della qualità dei percorsi formativi, dei risultati e della loro leggibilità dal punto di vista istituzionale, in modo da renderli noti e spendibili a livello politico e sociale, e di conseguenza evidenzia la necessità di costituire il soggetto ‘terzo’, l’Invalsi, con la responsabilità e la competenza per fare questo lavoro.[3]  Negli ultimi anni l’istituto ha garantito, oltre alla valutazione su base censuaria  dei risultati delle scuole (seconda e quinta primaria, terza secondaria di primo grado, secondo anno della secondaria,  e  in via volontaria anno conclusivo della secondaria di secondo grado),  la partecipazione italiana alle ricerche Iea e OCSE rivolte agli studenti a scuola. Inoltre  ha avviato processi di autovalutazione e operato per la diffusione di una cultura della valutazione, come supporto all’attività dei docenti e dell’amministrazione scolastica.

Al di là dei vivaci, molteplici e interessanti dibattiti sempre ricorrenti, ai fini di questa riflessione appare  utile citare i nuovi approcci presentati nel rapporto del 2018,  e in particolare gli aspetti, sostenuti anche in via teorica, relativi alla diversità delle funzioni e quindi alla distinzione tra valutazione di sistema e valutazione sommativa (intesa come certificazione scolastica).  Si stabilisce infatti una separazione netta tra la valutazione di sistema, operata sulla base delle prove Invalsi, e la valutazione dell’esame di Stato alla conclusione della terza classe della secondaria di primo grado (che ha valore legale di certificazione scolastica). Il concetto viene ancora ribadito per la partecipazione alle prove Invalsi dei frequentanti l’ultima classe della secondaria di secondo grado. In questo modo le prove relative alla valutazione di sistema:  introducono una prima forma di certificazione, volta a rendere leggibile, durante il percorso scolastico e alla sua conclusione, la progressiva acquisizione e il rafforzamento di quelle competenze trasversali e di base, che devono essere monitorate nei vari snodi del percorso formativo;  forniscono un documento descrittivo dei vari livelli di competenza conseguiti dal singolo studente a conclusione di questi snodi.

Al di là delle tante  polemiche, queste soluzioni  meritano qualche riflessione, perché pongono una interessante e complessa questione: la valutazione di sistema (comunque sempre modificabile e perfettibile)  sicuramente serve  a livello pubblico/ politico per un bilancio  istituzionale, relativo al funzionamento della scuola  nel suo insieme, ma  potrebbe e  dovrebbe  forse essere utile a una lettura del proprio  percorso formativo  da parte di chi frequenta la scuola e di chi l’ha  frequentata. Da questo punto di vista, senza confonderla con la certificazione scolastica, che in Italia produce il valore legale del titolo di studio, la valutazione di sistema può contribuire all’acquisizione del senso delle capacità, in termini di autonomia e di consapevolezza dei propri mezzi, e anche come strumento per l’assunzione di responsabilità e di attenzione all’acquisizione di un proprio patrimonio di abilità e di competenze da parte del singolo studente.

Qualche considerazione finale

Dare ai ragazzi, ai giovani studenti, strumenti utili per vedere a che punto si trovano, dove sono arrivati, da dove possono continuare negli studi o nel lavoro, e per capire cosa ha dato loro la scuola, fino a quel momento, rispetto a quello che richiede o  richiederà loro il contesto sociale in cui vivono, può essere considerato  un esercizio solo accessorio?  Offrire ai ragazzi, ai giovani un punto di vista, un occhio ‘esterno’, rispetto alla relazione che si determina o si è determinata tra docente e studente nella fase di apprendimento, in grado di osservare e valutare le proprie performance, misurandole rispetto a parametri definiti e riconoscibili, non è forse un elemento che contribuisce all’assunzione di   responsabilità del futuro cittadino verso se stesso?

E ancora, fornire anche questo tipo di valutazione non appare forse utile a sostenere i giovani, nella fase in cui devono orientarsi, alla conclusione della secondaria superiore, verso la prosecuzione degli studi o verso il lavoro? Spesso si denuncia le difficoltà che hanno i nostri giovani a orientare i propri percorsi successivi, lavorativi o professionali. Mettere quindi a disposizione di chi apprende un’informazione relativa al patrimonio di competenze che possiede già o che non  possiede ancora (per semplificare molto: «se vuoi fare questo,  quale competenza ti serve?»)  sarebbe utile come strumento che aiuta   a rendersi conto di quello che si potrebbe potenziare? Di quello che già si padroneggia bene? Di quello che si dovrebbe recuperare per andare avanti, assumendosi la responsabilità di pretendere di essere sostenuto dalla scuola con forme di apprendimento adeguato?  O anche che aiuta a decidere e a impegnarsi, non in vaghe e velleitarie aspirazioni, ma in un cammino che abbia senso e fondamento? Gli abbandoni prima del diploma dovrebbero far ragionare di più su queste questioni, così come pure la follia di alcune delle prove di accesso all’Università……. Ma qui de hoc satis!

[1] V. Gallina, Alfabeti e analfabeti nel mondo globale: il caso italiano,in LEUSSEIN , Anno XI n.1-2-3 , 2018

[2]  Don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967

[3] Per una ricostruzione delle vicende   che hanno accompagnato il complesso, “accidentato” percorso alla costituzione dell’INVALSI cfr Antonio Pileggi › www.liberalismogobettiano.it (giugno 2018)

Vittoria Gallina