Una scuola che non boccia tra progressisti e conservatori

Il tema delle bocciature è dibattuto da tempo e sono note le critiche a quelle scuole che non sono attente al merito degli allievi nell’affrontare soprattutto il rigore dei contenuti delle discipline di insegnamento e sembrano essere invece indulgenti nei confronti di una visione più sociale dell’apprendimento. Nella storia politica della nostra scuola questa apparente distinzione potrebbe ascriversi ai conservatori, eredi di una visione elitaria per la quale il successo tra i banchi si accompagnava ad una selezione nella società, mentre i progressisti hanno sostenuto in più di mezzo secolo una scuola democratica con la parità dei diritti e la possibilità da parte di tutti di raggiungere i più alti gradi nello studio e nel lavoro.

Si tratta però di confini labili in quanto il frequente alternarsi delle prospettive ideologiche e culturali al governo del Paese hanno determinato una sostanziale mescolanza di indirizzi politici nelle riforme scolastiche, in modo che il regime democratico incarnato dalla Costituzione ha allargato il diritto di accesso verso la scuola di massa e l’attenzione alla persona dell’alunno ed alla sua piena formazione ha cercato di valorizzare i “capaci e meritevoli”. 

Sebbene vi sia stato un avvicinamento tra le due posizioni nella vita delle scuole, sostenuto anche da qualche provvedimento legislativo, c’è ancora chi opera in vista del conseguimento degli obiettivi possibili per ciascun alunno e chi invece pensa che il sistema debba farsi carico del raggiungimento per tutti degli standard indicati a livello nazionale. In entrambi i casi le bocciature, soprattutto durante il ciclo di base, dovevano già essere eliminate, rimandando la selezione all’accesso ai gradi successivi o addirittura assicurando il successo formativo anche per i casi più fragili con adeguati interventi di supporto.

Le bocciature, soprattutto nella secondaria di primo grado, risultano pertanto un’anomalia, non solo dal punto di vista pedagogico perché interrompono il percorso formativo in un periodo particolarmente critico della crescita, ma anche da quello economico in quanto il ripetere delle classi per tutte le materie  procura un notevole dispendio di risorse che potrebbero essere impiegate ad esempio per rinforzare la dimensione orientativa che è una delle principali finalità di questo grado di scuola.

Il fenomeno delle ripetenze, che nella primaria si è cercato di scongiurare con una recente legge, nel grado successivo assume dimensioni preoccupanti, sono l’anticamera della dispersione; il sistema in questo modo finisce per essere profondamente diseguale perché soggiace alle condizioni socio -.economico – culturali dell’utenza e dei territori ed allo stesso tempo le competenze in uscita si abbassano sempre di più facendo gridare al fallimento delle politiche progressiste.

Sentire un partito che si definisce conservatore (Fratelli d’Italia) prediligere il sistema inglese che nelle scuole di base non boccia, rimandando la selezione ad un esame finale ed all’ ingresso nei gradi successivi, ci si può chiedere quale sia la sostanziale critica al nostro sistema se si eccettua la solita polemica politica. La vera questione sta nel ripristinare una scuola attenta all’equità sociale, che metta davvero al centro la persona ed il suo sviluppo, fornendo tutte le risorse finanziarie e di competenze professionali necessarie, a cominciare dalla valorizzazione dell’autonomia scolastica e della flessibilità didattica, per andare incontro alle esigenze diversificate delle utenze e dei territori: la diversità delle persone nelle finalità unitarie del sistema per tutto il Paese. In Inghilterra le scuole e l’assunzione del relativo personale vengono governati dalle Local Educational Authorities.

Il problema sul quale conservatori e progressisti si devono concentrare è la qualità degli apprendimenti, dei singoli e del sistema stesso, che fa passare in secondo piano le bocciature e tutte quelle dispute ideologiche sulla meritocrazia contrapposta all’egualitarismo: qui sono in gioco i diritti previsti dalla Costituzione. Come si fa a migliorare il livello qualitativo ? Gli inglesi valutano i docenti e le scuole e lo fanno sulla base dei risultati degli studenti. Se si vuole prendere esempio da un altro Paese bisogna farlo fino in fondo; in Italia ogni tentativo di questo genere fino ad ora è miseramente fallito o ridotto ad ulteriore complicazione burocratica. 

Le ultime notizie sulla formazione dei docenti riprendono la questione, ma mentre da una parte c’è ancora chi vede la valutazione mirata agli studenti, nei documenti governativi la si guarda più dal lato dei docenti, dall’acquisizione delle competenze culturali e professionali per accedere all’insegnamento e sul mantenimento delle stesse a cui corrispondere anche un incentivo economico. Mentre gli studenti si valutano per orientarli, fermo restando il carattere inclusivo della scuola, ai docenti si chiede un vero e proprio salto di qualità, sia sul fronte della gestione dei contenuti, oggi arricchiti dalle tecnologie digitali, sia nel miglioramento delle relazioni che aiutino i giovani ad assumere un ruolo di cittadini e lavoratori, soprattutto di fronte a disagi  procurati anche da emergenze sanitarie e sociali, sia nella qualificazione continua dei risultati che procurino al sistema sviluppo e competitività.

In Italia si è sempre esclusa una valutazione dei docenti riflessa sui risultati degli studenti perché trattandosi di un incontro fra persone le variabili in campo sono numerose dall’una e dall’altra parte, tuttavia il confronto internazionale dimostra la necessità da un lato di migliorare gli apprendimenti e dall’altro di monitorare continuamente il lavoro delle scuole e del suo personale. Il problema però è da considerarsi nell’ambito del contesto organizzativo nel quale si svolge l’azione didattica. In questi anni sono stati introdotti strumenti valutativi che per esplicare la loro efficacia avrebbero dovuto consentire una maggiore autonomia delle scuole nell’azione di miglioramento, invece che essere assoggettate a norme che imponevano gli stessi adempimenti nonostante la diversità dei risultati.

Si dice che la stagione dell’autonomia sia passata nella sensibilità dei docenti, che dopo un periodo di rivendicazioni circa il riconoscimento di spazi per l’esercizio delle professionalità, ci sia un’involuzione anche rispetto all’obbedienza alle circolari ministeriali, perché si lamenta la necessità di fronteggiare continue emergenze e purchè non ci sia in mezzo la valutazione individuale, affidando il riconoscimento della qualità alla contrattazione sindacale. Ora bisogna vedere se un atteggiamento remissivo sia compatibile con quanto sta intorno alla professione docente, il contesto com’è noto è in continuo cambiamento e non consente di ritornare nel grembo delle discipline, e quindi l’autonomia e la responsabilità sono condizioni ineludibili anche per dare alla scuola la capacità di svolgere il proprio ruolo nel territorio, a contatto con il  mondo del lavoro.

Tra i requisiti per il reclutamento ricompare l’accertamento dell’attitudine all’insegnamento, che potrebbe essere un modo per saggiare l’orientamento professionale nel suo complesso, il che difficilmente emerge nelle aule universitarie; un’attitudine che non ha una derivazione etica, serve a comprendere che la scuola non è più un impiego, semmai lo fosse stato, di professioni di ripiego, ma richiede la capacità di esercitare un ruolo educativo in mare aperto ed ha bisogno di rinforzi sul piano contrattuale e di carriera.     

     

 

Gian Carlo Sacchi  Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.