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La sindrome di Ehrenfest e il profilo dell’insegnantericercatore (parte prima)

Pubblicato il: 08/05/2017 11:35:07 -


Aspettative, sogni e frustrazioni.
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Paul Ehrenfest è stato un grande fisico teorico dei primi del novecento. Alla sua morte fu celebrato da tutti i più celebri fisici dell’epoca, cominciando da Albert Einstein (il più noto) e passando per Bohr, Pauli, Sommerfeld, Kramers e tanti altri. Egli aveva introdotto importanti concetti nella fisica e aveva saputo guardare all’interdisciplinarietà dei diversi settori specifici per trovare soluzioni che abbracciassero più problemi con quello dello transizioni di fase e quello del principio di corrispondenza di Bohr in termini statistici. Ma soprattutto era un fisico che sapeva andare oltre, come con il “tempo di Ehrenfest”, paradosso sul quale ancora oggi si indaga. Soffriva di depressione e nonostante la sua genìa non sopportava il fatto di non potersi esprimere a livelli più alti come avevano saputo fare alcuni (pochi altri) suoi colleghi. Un uomo forte ma allo stesso tempo molto debole, dilaniato da tensioni interne dovute ad una sensibilità umana ed intellettuale enormi al punto di togliere la vita a suo figlio affetto dalla sindrome di down e poi a se stesso.

Viviamo tempi difficili, tempi nei quali si è continuamente messi alla prova. Chi ha aspettative più alte soffre di più di chi non ne ha, per il fatto di dover misurare continuamente il suo ‘guardare oltre’ con la distanza necessaria per potervi accedere. Distanze sempre più inaccessibili, per come si trasforma la natura umana e per come questa si adatta sempre di più alla sua parte animale. Insomma, la ‘decisione finale’ non deve necessariamente essere (e ci si augura che non lo sia mai) quella di Ehrenfest (cioè estrema), ma la depressione, a vari livelli, genera molti processi di disadattamento, spesso poco capiti e molte volte ignorati. La depressione è alla radice di quelle tante forma di isolamento e solitudine che portano l’uomo a chiudersi in se stesso senza via di fuga se non quella della ‘follia’. Tante volte, può essere un processo interno, fortemente interno (cioè poco dipendente dal contesto), ma io credo che sia tanto più interno quanto più ignorato, non capito e volutamente rifiutato dal contesto, intendendo per questo il piccolo mondo (fatto di persone) nel quale ognuno di noi vive.

L’uomo di intelletto è un caso limite, perché tendenzialmente si allontana dalla sua parte animale trasformando anche quest’ultima in un’opera d’arte, al limite di un unicum, dove la sensibilità animale si esprime al limite delle sue possibilità perché sostenuta da quella superba dell’intelletto. Naturalmente, non parliamo qui dell’animalità corporea ma quella fatta di emozioni, espressioni, e soprattutto, sentimenti (durevoli rispetto alle emozioni). L’uomo di intelletto trasforma idee, pensieri, processi mentali, in azione! Le sue ricerche sono avventure reali con emozioni reali e sentimenti profondi, e vorrebbe condividerli per condividere emozioni e sentimenti. Ma condividere significa avere un interlocutore che sia disposto a vivere la stessa avventura. Ed è proprio qui che collassa il possibile idillio. Anche chi potrebbe, desiste, perché avvolto dalle facili e spontanee paure insite nella astratta e turbinosa velocità dell’avventura intellettuale. E l’uomo di intelletto resta solo, con la sua sindrome di Ehrenfest.

L’azione dell’intelletto è misteriosa per i molti. La dinamica della mente…superba! La tensione della depressione nella solitudine può divenire forza inesauribile perché trasmutata in energia creativa, come ci ha descritto mirabilmente Freud.

Quando l’uomo di intelletto diventa un uomo di successo allora diventa (spesso) arrogante e supponente, crudele e spietato…anche con chi pur essendo un’eccellenza non è da essi considerato “genio”, è la risposta a tanta solitudine prodotta dall’incomprensione dell’uomo comune. L’uomo di intelletto, oggi, è confinato in un equilibrio fortemente instabile, oscillando tra il potere dei suoi strumenti intellettuali che gli consentono in linea di principio di risolvere qualunque problema e la fragilità estrema del suo disagio generato dall’ignoranza dei più che lo isolano nella solitudine del suo mondo. La disperazione nasce dall’isolamento che rappresenta il male peggiore in quanto un uomo di intelletto lavora per il bene immanente della natura, dell’uomo e della società, quindi, è una necessità comunicare e diffondere i suoi risultati. L’isolamento impoverisce l’utilità dei suoi risultati fino a svuotarli di significato. L’uomo di intelletto non ambisce il successo. Quest’ultimo trasforma il valore dei suoi risultati in un’operazione commerciale fuori dal suo controllo mercificando i risultati stessi. Egli non ha bisogno del riconoscimento ottenuto con il successo. Egli ha bisogno di diffondere i suoi risultati in una dinamica di feedback, riscontri, critiche e rivisitazioni per migliorare l’efficacia del risultato. Il riconoscimento di cui ha bisogno è l’acquisizione dei suoi risultati e l’efficacia che deriva dall’uso che se ne fa. L’uomo di intelletto si lega con chi apprende e valorizza il suo prodotto facendolo proprio o elaborandolo in un nuovo risultato. Il legame è quello tipico tra ricercatori, dove l’emozione si fa tanto forte quanto la rivoluzione emotiva di una scoperta. La scoperta “in se” è intrinsecamente autosufficiente a generare e rigenerare emozioni forti nell’uomo di intelletto, tanto forti da renderlo autonomo e indipendente dalla “relazione” con il contesto e quindi con altre persone: è un bene ma anche un male perché lo rafforza contro tutti ma lo isola anche da tutti. Il rapporto con la comunità definisce il valore della condivisione e la forza della relazione che rompe l’isolamento e catalizza la diffusione dei risultati, perché ogni membro della comunità diventa un possibile centro diffusore. L’uomo di intelletto ha bisogno di una comunità, la arricchisce e viene da essa arricchito. Il genio (a differenza dell’eccellenza) può in rari casi farne a meno perché il suoi risultati si diffondono da soli. Ma questi sono casi rarissimi.

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