Gareggio dunque sono

Interessante e opportuno l’articolo di Mario Fierli sul “Global Teacher Prize”. Interessante e opportuno perché ci consente di riflettere su un fenomeno culturale che va ben oltre il premio in sé e investe l’intero sistema di valori che sembra dominare le nostre scelte, politiche e culturali. Mi scuso fin d’ora per l’estrema sintesi di cui oso fare oggetto temi tanto complessi e difficili.

È a parer mio un tratto tipico della cultura dominante quello del costante processo di reificazione delle relazioni umane, del sistematico attacco ai legami interni alle comunità e della sostituzione dell’individuo alla persona.

La logica è semplice e neppure tanto nascosta: lacerando quei legami, offuscando il fatto che siamo essenzialmente relazione, si ottiene l’atomizzazione, che è il presupposto della mercificazione. In buona sostanza, perché omnia venalia sint, è necessario che tutto sia decontestualizzato, liberamente collocabile e vendibile sugli scaffali del gigantesco supermarket che siamo diventati.

È così che si negano prospettive e gerarchie e tutto entra nel gran calderone in cui le famose vacche sono grigie.

Il modello “gara” dunque dilaga: dalle università alle scuole, alle cucine, ai quiz e alle balere televisive, è tutto un valutare, classificare, punteggiare, confrontare, far tabelle, dar medaglie e coppe. Il paradigma sportivo (non la pseudo ideologia decoubertiniana), tipico e utile dislocamento di pulsioni e tensioni altrimenti incomprimibili, la fa da padrone ovunque. Basti pensare all’uso davvero impressionante, a tutti i livelli, delle metafore legate al gioco del pallone e usate per definire questioni anche molto complesse.

Tornando alla logica sottesa a questi premi così eclatanti (e puntualmente ripresa dalla ministra Giannini), essa mi pare affatto consona alla semplificazione dei processi e alla loro immediata comunicabilità, senza residui. Il popolo di votanti – consumatori ha infatti necessità di oggetti semplici, slegati dal loro intorno, nei quali si possa riconoscere immediatamente il buono e il cattivo, nei quali ogni sfumatura è fonte di fastidio e di ansia.

Le gare, i premi sono coerenti con obiettivi e procedure semplici: è giusto premiare chi lancia il giavellotto più lontano, chi vince un torneo di scacchi, chi primeggia nella traduzione dal greco. Una professione complessa e “tutta relazione” come quella dell’insegnante è di per sé irriducibile a un contesto agonistico (vedi gli stessi criteri di assegnazione del Prize, affatto interpretabili) e poco adatta alla semplificazione. Ne è testimonianza la difficoltà (oserei quasi dire l’impossibilità) di giungere a parametri di valutazione condivisi e allo stesso tempo persuasivi ed efficaci.

L’abnorme premio di un milione di dollari dato all’insegnante palestinese è sicuramente più che meritato. Basterebbe non chiamarlo “premio al miglior insegnante”, ma “contributo a chi lotta in situazioni drammatiche perché non vadano perduti valori e legami fondamentali”.

Da quanto detto fin qui, si capirà che sono contrario ad ogni scimmiottamento mediatico in salsa italiana del Prize. Resto dell’idea che buona politica significa buona, sana e silenziosa amministrazione quotidiana del bene pubblico, non prendere iniziative eclatanti (e costose) per andare a finire sui giornali e nei TG e lasciare irrisolti i nodi veri della qualità dell’istruzione/educazione anche perché, come dice Raimondo Bolletta “la competizione [è] un tarlo letale mentre la responsabilità [è] un seme fecondo.”

Correlati:

M. Fierli, Il Global Teacher Prize. Riflessioni sull’eccellenza

Per approfondire:

R. Bolletta, Il tarlo della competizione e il seme della responsabilità

Claudio Salone