Un federalismo differenziato per dividere e discriminare Parte 2 – di Osvaldo Roman
Con il governo Monti si ebbe per l’istruzione la politica dei tagli delle risorse e del ridimensionamento delle strutture e del personale condotta contestualmente al drastico calo delle capacità di intervento degli enti locali nella scuola. Ciò sia sul piano dei servizi (mense e trasporti) che dell’edilizia scolastica e della selezione e ricerca dei progetti culturali da offrire alle scuole.
Tutto ciò accentuava la grave crisi della partecipazione che nel passato si era espressa negli organi collegiali di istituto e territoriali.
Le forze democratiche e di sinistra del nostro paese non hanno ancora iniziato l’analisi critica dei devastanti effetti che ha prodotto la politica scolastica realizzata dai loro governi negli anni più recenti fino alle elezioni politiche del 4 marzo 2018.
Infatti, la cosiddetta riforma della “Buona Scuola” ha prodotto un arretramento drammatico nella vita democratica delle istituzioni scolastiche causando un generalizzato distacco politico dalle forze di governo della sinistra di vasti settori dei lavoratori delle scuola di studenti e di genitori.
L’attacco alla libertà d’ insegnamento realizzato con la perdita della titolarità di istituto, e la conseguente chiamata diretta dei docenti il rafforzamento generalizzato del ruolo della dirigenza scolastica al di là della formale conferma di alcuni istituti dell’autonomia ha rappresentato lo stesso tipo di attacco che nelle fabbriche provocavano le scelte contenute nel Job Act.
La perdita della titolarità di sede scolastica per tutti i nuovi assunti e per i trasferiti era ispirata dallo stesso disegno di subordinazione gerarchica e antidemocratica che caratterizzava la perdita della non licenziabilità garantita in precedenza dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
L’aggravarsi della condizione retributiva e sociale di questi vasti strati di lavoratori intellettuali e di dipendenti pubblici ha completato quell’azione di rigetto e di distacco che ha prodotto effetti così devastanti non solo nella campagna referendaria sulla riforma della Costituzione ma soprattutto in tutte le scadenze elettorali realizzate nel nostro paese fino a quella del 4 marzo 2018.
Un ruolo non secondario, in questo processo di distacco di larghe masse di cittadini dalla politica delle forze democratiche e di sinistra al governo, ha avuto l’incapacità dimostrata da queste nell’organizzare una risposta culturale alla politica scolastica delle destre nella gestione delle autonomie locali e delle Regioni.
Hanno contribuito al realizzarsi di tale distacco non solo le scelte centralistiche e autoritarie presenti nella riforma costituzionale portata al Referendum ma poi anche la colpevole inerzia e resa di fatto di fronte alla spinta autonomistica-secessionista manifestatasi con lo svolgimento dei Referendum consultivi sull’autonomia differenziata in Veneto e Lombardia.
Le destre del nostro paese hanno sempre avuto come avversario da combattere l’autonomia della scuola e degli insegnanti e la loro libertà d’ insegnamento. Basti ricordare al riguardo campagne contro la libertà di scelta dei libri di testo, gli ostacoli posti al rispetto della laicità della scuola nella vicenda dell’insegnamento confessionale della religione cattolica.
Le Gelmini e le Meloni cha portano i presepi e cantano le nenie religiose, come simboli della cattolicità da difendere e da imporre nelle istituzioni scolastiche, sono solo la manifestazione folclorica di un fenomeno più profondo che si esprime in quella concezione autoritaria più pericolosa che è venuta chiaramente in luce con l’esito elettorale della destra nelle elezioni del recente 4 marzo 2018.
La debolezza della risposta culturale della sinistra di governo al montare di questa vandea è stata impressionante. Questa spinta ha rappresentato il vero terreno di cultura anche dell’insofferenza xenofoba e delle manifestazioni di razzismo che si sono verificate con maggiore frequenza negli ultimi tempi.
Non si cerchi la causa di ciò solo nella dimensione economica o sociale, specie nelle periferie, c’è anche una dimensione culturale che si esprime a partire dalle scuole.
Allora non è secondario considerare il ruolo che, in questa concezione della destra, giocano le politiche e i poteri degli enti locali.
A partire dal caso di Adro dove esplose alla luce del sole la invocazione di un scuola leghista, e dalla corposa ingerenza clericale e localista nelle scuole dell’infanzia del Veneto e della Lombardia, arrivando al più recente rifiuto della mensa scolastica ai figli degli immigrati della scuola di Lodi si è compreso cosa vogliano intendere costoro per autonomia legislativa e amministrativa delle Regioni.
Si è verificata una situazione costante: una destra che vuole fare dell’Ente locale di tutti lo strumento di una politica di una parte e di discriminazione antidemocratica.
Tale obiettivo si trova nella pretesa di costruire sistemi scolastici separati da quello nazionale governati dall’intrusione politica degli amministratori degli enti locali nella definizione degli indirizzi culturali e programmatici delle scuole, nella loro gestione e nel reclutamento del personale direttivo e docente.
Inoltre è a mio parere molto evidente ma non altrettanto denunciato che il progetto secessionista non mira solo a dividere il Paese per favorire la scuola delle regioni più ricche ma soprattutto a realizzare in quelle realtà, attraverso il sistema dei bonus, una privatizzazione del sistema di istruzione, che valorizzerebbe la scuola paritaria relegando la residua componente statale alla frequenza dei più poveri e degli immigrati.
In questi orientamenti discriminatori si devono intravedere con precisione i rischi che corre la nostra società.
Osvaldo Roman