Scuola e lavoro: dall’esperienza delle 150 ore al reddito di cittadinanza. Una conversazione con Antonio Lettieri – di Claudio Salone
Claudio Salone:
Le norme relative al Reddito di Cittadinanza sono state pubblicate sulla G.U. Visto il ruolo non secondario che vi si assegna alla formazione, emerge un importante tema relativo alla presenza del sistema formativo pubblico nel percorso di attuazione di tali norme. Nei primi anni ’70 (1973), quando si aprì e si concluse con successo, nella contrattazione dei metalmeccanici italiani, il capitolo delle 150 ore, si realizzò una novità straordinaria, non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa. Cosa puoi dirci sulla genesi di quelle ormai lontane vicende e sulla possibilità che la scuola, intesa in senso lato, si faccia anche oggi strumento di rafforzamento e di recupero dell’identità culturale e professionale, personale e collettiva?
Antonio Lettieri:
E’ passato quasi mezzo secolo dall’istituzione delle 150 ore, molte cose sono cambiate e quell’esperienza non può essere ripetuta nella forma che assunse a quell’epoca. Ma, forse, non è inutile tornare con la memoria alle origini di quella esperienza e provare a trarne indicazioni utili anche per il presente, dal momento che le 150 ore lasciarono un segno profondo nel rapporto fra scuola e lavoro.
Per inquadrare il tema in una giusta prospettiva direi che le 150 ore ebbero origine nelle fabbriche, partendo dalla critica dell’organizzazione del lavoro introdotta da Taylor.
Il cuore dell’organizzazione scientifica del lavoro (OdL) teorizzata da Frederick Taylor a cavallo del XX secolo stava nella separazione fra il lavoro comune di massa e il lavoro qualificato di una élite operaia. Era la divisione classica, nel linguaggio anglosassone, fra “skilled” e “unskilled”. Fra le due categorie si ergeva un muro invalicabile.
Per Taylor il lavoro di massa era il compito scientificamente organizzato di lavoratori senza alcuna competenza specifica. L’obbedienza ai metodi e ai tempi di esecuzione di un compito elementare era l’essenza stessa dell’OdL.
Henry Ford sviluppò la separazione fra lavoro comune e lavoro qualificato applicandola alla catena di montaggio, inaugurando a Detroit, nel 1913, l’industria automobilistica moderna. Il lavoro parcellizzato si compiva nel giro di pochi secondi. Non c’era bisogno di formazione. Anzi, questa sarebbe stata di ostacolo, introducendo elementi di riflessione ridondanti rispetto al compito elementare da svolgere secondo i rigorosi dettati del management. All’operaio senza qualità, per parafrasare il famoso titolo di Musil, non si chiedeva alcuna intelligenza nell’eseguire il suo compito.
Nella selezione per l’assunzione nella fabbrica di Ford più famosa al mondo, a River Rouge, nei dintorni di Detroit, erano preferiti gli individui senza alcuna scolarizzazione, gli immigrati, i neri che davano maggiore garanzia di adeguamento alle rigide norme dell’OdL. Il modello fu imitato nelle fabbriche tessili dove ai telai prevaleva il lavoro femminile.
La nuova OdL consentiva uno straordinario aumento della produttività e, secondo i canoni di Taylor e di Ford, un consistente aumento del salario. Le critiche a questa estrema parcellizzazione e intensificazione del lavoro non mancarono. Taylor subì una sorta di processo da parte di una commissione del Senato americano, che lo accusò di essere il teorico e promotore di forme estreme di sfruttamento dei lavoratori. Ma l’organizzazione scientifica del lavoro era alla base della nuova rivoluzione industriale e si diffuse rapidamente in tutti i paesi industrializzati o in via di industrializzazione. Lenin indicò la teoria e la pratica della divisione del lavoro taylorista come il modello da adottare nelle grandi fabbriche della pianificazione socialista.
CS
Come reagì il sindacato di fronte all’affermarsi dei nuovi modelli di organizzazione del lavoro?
AL
Bisogna considerare che con la produzione di massa aumentava l’occupazione e aumentavano soprattutto i salari. Per il sindacalismo americano, dominato dall’AFL (American Federation of Labor) governata da Samuel Gompers, suo fondatore e presidente per quasi quarant’anni a cavallo dei due secoli, il sindacato organizzava i lavoratori sulla base del mestiere. In sostanza gli operai qualificati. E questi rimanevano al centro dell’organizzazione in una posizione privilegiata.
Bisognò attendere il New Deal e Franklin D. Roosevelt perché nascesse il CIO (Congress of Industrial Organizations), che riscattò il lavoro comune di massa, portandolo al centro del nuovo sindacalismo. Il sindacato dell’auto guidato da Walter Reuther, iscritto da Time tra i 100 maggiori protagonisti della storia americana del secolo, entrò per la prima volta nelle fabbriche di Ford.
Ma anche in questo caso, il cambiamento riguardava il potere di contrattazione del salario e delle condizioni di lavoro in senso lato, non la distinzione di base fra lavoro comune e lavoro qualificato. Su questa distinzione era basato il sistema delle qualifiche che, con la doppia divisione tra operai e impiegati e tra gli operai, dominava il sistema industriale e sindacale in America come in Europa. La barriera fra skilled – operai qualificati – e unskilled, operai comuni rimaneva insuperabile.
CS
Questa barriera fu superata in Italia con l’inquadramento unico fra operai e impiegati. Quali furono i moventi di questa innovazione che sconvolse il vecchio sistema di qualificazione, basato sulla divisione del lavoro di origine taylorista-fordista?
AL
La rivoluzione delle qualifiche in Italia ebbe all’inizio un origine quasi casuale.
A me era capitato di occuparmi del sistema delle qualifiche mentre ero all’ufficio studi economici della CGIL. Il sistema delle qualifiche mi appariva fondato su un’organizzazione del lavoro che operava una rottura ideologica oltre che pratica nella classe operaia – la rottura fra operai e impiegati consacrata nella contrattazione collettiva. Ma si trattava di una speculazione teorica, priva di qualsiasi traducibilità pratica. Il sistema delle qualifiche tradizionale era dominante in tutto il sistema industriale.
Il caso volle che essendo stato eletto nella segreteria nazionale della Fiom, diretta da Trentin, mi fu affidata la contrattazione nel settore siderurgico dove era stato superato il tradizionale sistema delle qualifiche con l’adozione della Job Evaluation, un sistema molto sofisticato che suddivideva i lavoratori in 50 classi: 24 destinate agli operai, 16 a impiegati e tecnici, 10 ai quadri intermedi. La suddivisione era basata su un’analisi molecolare del posto di lavoro che classificava i lavoratori, formalizzando la valutazione secondo un rigoroso punteggio che rifletteva la parcellizzazione dei compiti. Era la divisione del lavoro innalzata a un livello “scientifico”, in altri termini intangibile dal punto di vista della contrattazione dell’organizzazione del lavoro e degli stessi salari definiti secondo la gerarchia delle classi.
Mi convinsi che, se il sistema tradizionale delle qualifiche era intangibile, si poteva provare a scardinare la Job Evaluation introdotta solo nei centri siderurgici dell’Italisider, alcuni dei quali erano i più grandi in Europa. Nel 1970, quando era previsto il rinnovo del premio di produzione, decidemmo, dopo un complesso lavoro che coinvolse la massa dei delegati dei centri siderurgici, che si poteva formulare una piattaforma più ambiziosa: il superamento della Job Evaluation con l’adozione di una nuova classificazione basata su sei livelli che comprendevano al loro interno tutti i lavoratori secondo la collocazione nel processo produttivo, senza distinzione fra operai, impiegati, e quadri intermedi. Era la nascita dell’inquadramento unico. Ma si trattava pur sempre della contrattazione in un settore particolare che non toccava il sistema generale delle qualifiche e della distinzione fra operai comuni e qualificati e, in generale, fra operai e impiegati. O almeno così appariva, e non c’era nessuna ragione per indicare il superamento della Job Evaluation come il rovesciamento del tradizionale sistema delle qualifiche.
La vertenza fu lunga e duramente impegnativa. Per fermarla intervennero sulle confederazioni il presidente dell’IRI Petrilli e il governo presieduto da Emilio Colombo. Ma dopo alcuni mesi di lotte, alla vigilia di Natale del 1970, la vertenza fu conclusa con successo: la divisione in 50 classi fu abolita e l’inquadramento unico dei lavoratori fu sancito lungo una scala di otto livelli di inquadramento, all’interno di ciascuno dei quali erano collocati i lavoratori in relazione alla loro collocazione nel processo produttivo.
La novità destò interesse e sorpresa in tutto il sindacalismo europeo. La classica divisione del lavoro era stata scardinata non solo perché nello stesso livello con uguale salario e con uguali diritti erano collocati lavoratori manuali e intellettuali (un ingegnere all’inizio della carriera era collocato allo stesso livello di un operaio altamente specializzato) e un operaio specializzato poteva occupare un livello superiore a quello di un impiegato esecutivo, ma soprattutto perché i nuovi livelli erano intercomunicanti e i passaggi dall’uno all’altro dipendevano dalle regole stabilite nella contrattazione collettiva, in un processo di allargamento e arricchimento delle mansioni sulla base di una nuova organizzazione del lavoro.
L’inquadramento unico, nato in un particolare settore tecnologicamente avanzato della categoria dei metalmeccanici, ebbe un effetto contagioso. Con il rinnovo del contratto nazionale del 1973 fu generalizzato all’intera categoria, poi a tutta l’industria e, in seguito, ai servizi e alla Pubblica Amministrazione. Oggi si è perduta la memoria dell’origine di quel processo, essendo l’inquadramento unico diventato un intreccio naturale fra operai impiegati e quadri intermedi, ma in quegli anni vennero a studiarlo da tutta l’Europa e Temps Modernes, la rivista di Jean Paul Sartre, dedicò un numero speciale alle origini di quello che fu considerato il rivoluzionamento del tradizionale sistema di qualificazione del lavoro e di divisione dei lavoratori[1].
CS
In che modo le 150 ore divennero parte di questo processo che cambiava insieme l’organizzazione del lavoro e il sistema tradizionale di divisione e qualificazione del lavoro?
AL
Il superamento del vecchio sistema di qualifiche e la nuova dinamica prevista tra un livello e l’altro di inquadramento apriva la strada a un nuovo rapporto con la formazione. Non si trattava del puro addestramento, tradizionalmente compito dell’azienda, ma di una più compiuta comprensione del processo produttivo da parte delle masse lavoratrici. Ma questa evoluzione imponeva un processo di arricchimento culturale individuale e collettivo, un nuovo rapporto fra lavoro e conoscenza del mondo della produzione. La scuola doveva essere chiamata a partecipare a questo processo che intrecciava lavoro e sapere.
Il terreno per questo scambio diventava una novità importante e la conquista delle 150 fu la chiave per realizzare l’intreccio, ai diversi livelli d’intervento nel processo produttivo, fra lavoro manuale e lavoro intellettuale.
Vi era chi riprendeva il corso degli studi dopo averlo abbandonato o esserne stato emarginato, e chi vi cercava nuove abilità e motivazioni. Il tempo dedicato all’apprendimento, come frazione delle 150 ore era per il 50 per cento a carico dell’impresa entro un limite quantitativo prestabilito.
Nella trattava dei metalmeccanici la controparte osservò che si trattava di una rivendicazione paradossale che poteva significare retribuire un lavoratore per imparare a suonare il clavicembalo. L’obiezione della controparte appariva decisiva. Replicai che l’esempio era perfetto.
Le 150 ore dovevano essere considerate una conquista dei lavoratori non una benefica concessione del datore di lavoro. Il lavoratore che ne acquisiva la disponibilità, aggiungendovi altrettante ore non retribuite, sarebbe stato libero di scegliere il campo del suo impegno culturale. La cosa suscitò sorpresa e interesse nella grande stampa. Negli anni successivi centinaia di migliaia di giovani uomini e donne ripresero a studiare nei corsi che le scuole avevano appositamente istituito per gli utenti delle 150 ore.
Parte seconda: uno sguardo al Futuro
CS
Parliamo ora del protagonismo della scuola nelle 150 ore e di un suo possibile ruolo nell’attuazione del Reddito di Cittadinanza
Partiamo dal fatto che il Reddito di cittadinanza non è concepito come un puro sussidio a beneficio di cittadini che vivono in uno stato di povertà. Il beneficio è condizionato alla ricerca e alla disponibilità ad assumere un lavoro adatto alle proprie capacità, secondo un criterio di “congruità”.
La misura ha un carattere generale, ma è evidente che toccherà in particolare i giovani e specialmente le regioni del Mezzogiorno.
In Italia oltre il 30 per cento dei giovani in età di lavoro è disoccupato. E’ la cifra più alta, dopo Grecia e Spagna, tra i 28 paesi dell’Unione europea ed è il doppio della media europea. Ancora più grave è tuttavia la varianza interna del dato. In alcune regioni la percentuale dei giovani disoccupati è significativamente più bassa, mentre nel Mezzogiorno sfiora il 40 % o lo supera. Stando così le cose, è certo che non tutti troveranno lavoro in un tempo prevedibile, sia per un’oggettiva mancanza di posti di lavoro, sia per una formazione non rispondente ai requisiti richiesti da specifici settori del mercato del lavoro. Questa è la ragione per la quale il RdC è previsto come contropartita all’impegno sia nella ricerca attiva di un posto di lavoro, sia, in mancanza di ciò, all’interno di uno specifico percorso formativo.
Rientra così in gioco il ruolo della scuola nelle sue varie articolazioni: dal recupero scolastico in generale al conseguimento di una specifica preparazione richiesta dal mercato del lavoro. Di fronte a una misura così vasta che coinvolge tendenzialmente centinaia di migliaia di giovani e di adulti in un processo formativo, il ruolo del sistema pubblico di istruzione non può non assumere un rilievo essenziale
La differenza con l’esperienza delle 150 ore è tuttavia evidente. Allora si trattava di una scelta libera del lavoratore per accedere a un più alto grado di preparazione culturale con o anche senza una finalità strettamente professionale. Nel caso del RdC si tratta della manifestazione di un impegno individuale come contropartita obbligata per la fruizione di un beneficio posto a carico della collettività. Al sistema scolastico pubblico spetta in via principale o complementare la predisposizione delle condizioni idonee all’assolvimento di quell’obbligo.
La scuola superiore può attrezzarsi per offrire livelli di formazione coerenti con la domanda effettiva o potenziale del mercato del lavoro, avendo come orizzonte l’intero sistema produttivo del paese. Nell’industria manifatturiera le imprese lamentano una carenza di figure professionali corrispondenti a una consistente domanda di lavoro inevasa. Questo, in misure diverse, à vero anche per un ampio settore dei servizi e per la PA, se si considera il potenziale turnover conseguente ai nuovi criteri di pensionamento.
Non bisogna attendersi miracoli, ma è un fatto che l’Italia presenta il più basso tasso di occupazione fra i paesi avanzati. Se le misure finalizzate a una cittadinanza attiva e dignitosa è l’obiettivo di un nuovo tipo di intervento pubblico, la formazione diventa una leva imprescindibile per coniugare la lotta alla povertà con una prospettiva di progresso personale e di sviluppo del paese.
In alcuni casi sarà una leva per liberare i più giovani dall’emarginazione nelle periferie delle grandi città e dal rischio di cadere nella trappola della criminalità. Per la maggioranza di giovani che hanno conseguito un diploma o una laurea triennale, ma disoccupati, riprendere il percorso formativo specificamente indirizzato verso le nuove caratteristiche della domanda di lavoro potrebbe significare un imprescindibile aggiornamento nel vasto campo delle tecnologie la cui rapida evoluzione fa invecchiare la preparazione scolastica precedentemente acquisita.
Al tempo stesso, le Università potranno aprire le porte a giovani e adulti per aggiornare e affinare una laurea precedentemente conseguita – in particolare le lauree brevi – per rispondere alla rapida evoluzione della domanda di lavoro in alcuni settori della produzione, dei servizi e delle istituzioni pubbliche.
Non è un caso che le organizzazioni imprenditoriali lamentino la mancanza di formazione adeguata alle nuove tecnologie dei sistemi produttivi. Le cifre si aggirano attorno alle centinaia di migliaia di posti di lavoro attivabili. Il punto però non è scommettere sulle cifre, più o meno rilevanti. È un fatto che l’economia italiana uscirà dalla stagnazione e si svilupperà solo adeguando offerta e domanda di lavoro. Il RdC può offrire un’occasione importante, da non disperdere in mille rivoli, se focalizzato sul binomio occupazione-formazione.
Sotto questo profilo il coinvolgimento del Ministero della PI in un impegno congiunto col Ministero del lavoro e dello sviluppo può rappresentare una triangolazione decisiva. Tanto più se si pone come base di un modello di interlocuzione e di collaborazione con le rappresentanze sociali dei lavoratori e delle imprese. In questo quadro un rinnovato impegno della scuola ai diversi livelli, dall’istruzione superiore alle Università, si pone come un’occasione e insieme come strumento indispensabile per la realizzazione di un essenziale obiettivo sociale.
(*) Antonio Lettieri, è stato segretario confederale della Cgil ed è attualmente presidente del Centro internazionale Studi sociali (Ciss).
Claudio Salone