Riforma del secondo ciclo: avanti adagio, quasi indietro (1)

Finita la produzione dei documenti ministeriali necessari per l’avvio della riforma del secondo ciclo, è possibile una prima visione d’insieme, anche se proprio d’insieme non si tratta, anzi l’impostazione di fondo è marcare la differenza tra i diversi segmenti, fino a farla sembrare piuttosto ideologica e legata al passato, che non un’analisi di quanto richiesto a un sistema formativo per far fronte alle sfide del presente e del futuro.

Se fosse applicabile una metafora automobilistica si potrebbe dire di una marcia avanti, l’istruzione tecnica, una indietro, quella liceale, e una in folle, l’eterno indeciso ruolo dell’istruzione professionale.

Gli istituti tecnici sono quelli che di più possono assumere il compito di competere con l’Europa, dove sia per l’elaborazione delle politiche comunitarie, sia per l’impostazione assunta da diversi Paesi, stanno sostenendo assieme a un vasto consenso nell’opinione pubblica il ruolo di motore dell’economia e della capacità di ricercare nuove sintesi culturali tra ciò che si deve alla crescita della persona e quanto viene richiesto dalla società e dal mondo del lavoro.

Da noi basti ricollegarci al dibattito tra Israel e Gentili (Il Sussidiario/Tuttoscuola) per ritrovare l’antica antinomia tra otium e negotium, che ha permeato il lungo dibattito sulla riforma nel rapporto tra “area comune” e “indirizzi” e che ancora oggi non è in grado di proporre una nuova sintesi culturale e pedagogica tra la formazione professionale e quella così detta generale, di cui peraltro il mondo del lavoro manifesta notevole necessità e che la legge Moratti aveva indicato nei “licei vocazionali” e il secondo governo Prodi, anche per ragioni che potremmo definire di civiltà, nell’innalzamento dell’obbligo di istruzione a sedici anni con particolare riferimento a nuovi assi culturali e alle competenze di cittadinanza europea.

È infatti sempre in pista l’accusa di funzionalismo, anche se nella realtà odierna la crescita dei giovani lega i contenuti con gli sbocchi professionali, la motivazione con un apprendimento operativo che li coinvolga e li porti a risultati concreti in determinati contesti.

La cultura tecnica non può dunque sostenere solo il “progetto”, mentre quella professionale “l’applicazione”, come si legge nei documenti dei due comparti, entrambi fanno parte di un’unica visione, che questa riforma non ha prodotto, in cui le competenze legate alla persona non possono essere disgiunte da quelle che ricerca nella società e nel lavoro, e queste ultime devono elevare l’individuo perché sia sempre più in grado di sostenere il cambiamento che non è soltanto nelle performance lavorative, ma presenti in un’ottica appunto personale e sociale, della cittadinanza.

Una nuova pedagogia del lavoro si impone dunque non solo per i tecnici, ma per tutti i ragazzi e le ragazze, perché sempre più legata allo sviluppo sia delle persone stesse che del mondo produttivo.

I canali separati non solo indeboliscono una tale strategia, rendendo meno competitivo tutto il sistema, ma negano per esempio ai licei l’importante compito di proporre a tutti la così detta “licealità diffusa”, cioè la partecipazione alla vita attiva in termini se vogliamo anche di tirocini lavorativi, nonché di aggiornamento dei saperi, per fornire un contributo formativo a tutti i giovani e a ciascuno di essi.

Il rilancio dell’istruzione tecnica, peraltro già affermata dalla legge 40/2007, al quale ha contribuito il mondo delle imprese, è la vera marcia avanti di questa riforma. Qui sono contenuti non solo il riordino degli indirizzi, per adeguarli alle esigenze professionali, ma tutta una serie di interventi che possono innovare la didattica e l’organizzazione della scuola in senso lato, peccato che tutto questo rischi di passare sotto silenzio per la mancanza da un lato di risorse che consentano di sostenere i nuovi dispositivi, e, dall’altro, per l’ancora eccessiva rigidità nella gestione del curricolo. Autonomia delle scuole, flessibilità dei modelli organizzativi, rapporti con il mondo del lavoro (tirocini), non sono di fatto possibili senza interventi esterni, che a loro volta devono sottostare alle pastoie burocratiche e del governo del personale.

Una nuova didattica, soprattutto di carattere laboratoriale non può fare a meno della profonda revisione delle routine organizzative, di un organico di istituto vero, relativo ai docenti e al personale tecnico, tarato sugli indirizzi, ma anche sui progetti della scuola, stabile per un certo numero di anni e costruito sui fabbisogni dei diversi territori. Senza di ciò cosa può fare un “comitato tecnico-scientifico” per mettere in campo insegnamenti che siano vicini alle esigenze territoriali.

Una metodologia per “problemi e progetti” ha bisogno di un’organizzazione temporale diversa da un tradizionale orario settimanale delle “lezioni”, contenuta nella logica delle competenze, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto valutativo, che con il recente decreto Gelmini rischi di entrare profondamente in collisione.

Sarebbe bello poter lavorare, come in altri Paesi, secondo la logica delle scienze integrate, ma per effetto del meccanismo delle classi di concorso, ciò potrebbe avvenire quasi per caso.

Interessante anche se non privo di contraddizioni l’introduzione di una disciplina chiamata “scienze e tecnologie applicate”, variabile nei diversi indirizzi. Fatto in un’area comune che va verso la definizione delle scelte potrebbe essere l’applicazione di una ragionevole pedagogia orientativa, mentre introdotta a scelte avvenute può avere efficacia solo in caso di insuccesso, in altra maniera non può essere un’anticipazione del profilo professionale, complicata dalla difficoltà che i docenti (quelli che hanno una maggiore presenza nell’indirizzo) accentuatamente specialisti incontrano nel gestire una problematica, come si è detto, di tipo orientativo.

Un’assoluta novità è il raccordo dei diplomi tecnici con percorsi biennali post-diploma (Istituti Tecnici Superiori) non accademici, per sostenere lo sviluppo di tale tipo cultura a livello elevato e in correlazione alle vocazioni produttive dei territori, come avviene in altri Paesi, ma di tutto questo attendiamo le concrete realizzazioni.

(continua)

Gian Carlo Sacchi