Resilienza e scuola: il futuro è già passato
Resilienza è una parola sempre più di moda, additata spesso come stella cometa da seguire, come caratteristica desiderabile e per la quale impegnarsi nella trasformazione verso un mondo, e quindi anche verso una scuola, più sostenibile. In cui sostenibilità vuol dire anche «istruzione di qualità per tutti», come recita il SDG (Sustainable Development Goals) n.4 dell’Agenda 2030.
Ma una riflessione sull’evoluzione della scuola Italiana negli ultimi 50 anni, dagli anni ’70 ad oggi, permette di capire come la resilienza dei sistemi educativi, in generale ma soprattutto in Italia, non sia un obiettivo ma un ostacolo: resilienza (da resiliens, che resiste, che rimbalza) è definita infatti in fisica come ‘resistenza al cambiamento’ o anche, in ecologia, come la «velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione». La resilienza è quindi quella caratteristica che si oppone al cambiamento, individuale, sociale ed ecologico. Certo se il cambiamento è peggiorativo o traumatico, la resilienza del sistema è un vantaggio ma, per quel che riguarda la scuola italiana, la resilienza ha voluto dire ritornare sostanzialmente a una scuola del passato – nemmeno tanto efficace, come dicono i dati PISA – anche se i tempi sono cambiati per cultura – o non cultura – diffusa, conoscenze sia scientifiche sia sociali, popolazione scolastica, e così via.
Un caso di perturbazione del sistema
La perturbazione di cui voglio parlare sarà presentata il 5 marzo prossimo alla Casa della Memoria del Circolo Gianni Bosio, a Roma, e riguarda uno dei primi esempi di licei sperimentali. Il LUS, Liceo Unitario Sperimentale della Bufalotta, nato nel 1970, aveva l’obiettivo di sperimentare un possibile progetto di riforma della scuola secondaria superiore, seguendo la proposta sintetizzata nei Dieci punti di Frascati, risultato di un incontro tra esperti italiani e esperti internazionali dell’OCSE, voluto da Aldo Visalberghi e organizzato dall’allora Ministero dell’Istruzione. Nei dieci punti, tra i quali c’era già allora «La conclusione del percorso scolastico a 18 anni» – per riportarci alla media europea e evitare di penalizzare i nostri giovani – i più importanti e ‘sperimentabili’ erano:
- Un biennio di conclusione della scuola dell’obbligo (realizzato solo nel 2007) unico (e questo non è mai stato realizzato), dal quale si potesse accedere a tutti gli indirizzi, anche a quelli professionalizzanti;
- La partecipazione studentesca, delle famiglie e delle autonomie locali al governo della scuola.
Non si parlava di rivoluzione culturale, ma l’esigenza era ben presente se Reguzzoni nel 1970 scriveva: «Allo stato in cui si trova la democrazia nel nostro Paese, né il governo né il parlamento saranno capaci di innovare radicalmente le strutture scolastiche per renderle idonee alle esigenze poste dalla rivoluzione culturale in atto dovunque nel mondo: le soluzioni politiche saranno necessariamente “compromessi” che non soddisferanno nessuna delle ideologie coinvolte nella trasformazione. Solo una liberalizzazione della sperimentazione di nuovi tipi di Istruzione secondaria potrà, un poco alla volta, creare una corrente di opinione che accetti strutture scolastiche creatrici di una cultura» (Reguzzoni, Scuola Secondaria, Settembre-Ottobre, 1970).
Giovani e meno giovani insegnanti che il ’68 lo avevano vissuto, genitori e studenti che cercavano una scuola meno autoritaria, accettano la sfida e danno il via a un periodo di ‘sperimentazione’. Maxi o mini-sperimentazioni, per più di un decennio idee nuove hanno circolato nella scuola italiana: licei sperimentali, ma anche tempo pieno alle elementari, scuole dell’infanzia divenute famose a livello mondiale, istituti universitari che si occupano di didattica, che offrono borse di studio per la didattica e laboratori per insegnanti.
Per la scuola secondaria la sfida non è solo strutturale, ma culturale: quale cultura in una scuola unitaria aperta al presente? Riprendendo di nuovo quanto scritto allora: «Quale sia questa cultura «alternativa» di cui gli studenti parlano, non è facile dire; tuttavia ci sembra che essa vada Identificata in una capacità di comprensione del presente in vista di scelte da compiersi per l’avvenire; mentre invece la cultura tradizionale potrebbe essere definita come consapevolezza delle conoscenze accumulate nel passato, che indubbiamente servono alla comprensione del presente, ma che sono studiate piuttosto come un valore in sé. Questa distinzione si traduce, sul piano didattico, nello studio dei problemi anziché delle materie, per cui la matematica invece di essere una tecnica per l’acquisizione delle nozioni, diventa una metodologia della ricerca, dove «la scelta del problemi e il modo di studiarli sono essi stessi ipotesi da verificare e non fatti acquisiti» (E. Gelpi, Scuola senza cattedra, Milano 1969, p. 40 in Reguzzoni, Scuola Secondaria, Settembre-Ottobre, 1970)
Tutto questo diventa motivo e sostanza nella scuola sperimentale e, come proposto dalla Commissione Biasini nel 1972, nel LUS si sperimenta una scuola ‘comprensiva’: una scuola cioè con «struttura unitaria, articolata al suo interno in materie comuni, opzionali ed elettive, e completamente estranea a finalità professionali». Ma a questi obiettivi il LUS aggiunge una richiesta di libertà, e al tempo stesso di democrazia, propria di quel periodo, e una volontà di provare a fare le cose per capirle, e a farle e capirle assieme. Non si possono rinnovare solo le materie: anche l’organizzazione deve cambiare, il modo di studiare (libri di testo o ‘libri’? O anche esperimenti, azioni, performance?). Deve cambiare il modo di valutare: se la valutazione deve essere formativa, è lo studente che deve imparare a valutarsi, tenendo conto dei feedbacks, degli elementi di realtà che l’insegnante, ma anche i suoi compagni, gli mettono davanti.
L’utopia accompagnava l’ansia di innovazione e la sperimentazione attenta ai fatti. Il LUS, ma anche altre scuole sperimentali in quel tempo, erano un esempio di quelle learning organizations, organizzazioni che apprendono, e continuano a domandarsi come migliorare, che nel convegno dell’OCSE a Poitiers nel 2003, sono state indicate come «uno degli scenari di sviluppo futuro della scuola».
La resilienza vince la perturbazione
I tempi cambiano, i decreti delegati hanno riportato ‘ordine’ alla partecipazione di studenti e genitori alla vita della scuola, le sperimentazioni troppo avventurose sono state chiuse rapidamente (ma senza ammetterlo pubblicamente: il LUS fu chiuso per inagibilità dell’edificio), altre successivamente, e la scuola nata dal ’68, che stava cominciando a mettere in discussione culture e privilegi, non ha resistito alla resilienza del sistema.
Ma non è l’unico cambiamento sul quale la resilienza del sistema ha avuto la meglio (e per sistema si intende non solo l’organizzazione istituzionale, ma anche i sindacati, i genitori, buona parte degli insegnanti stessi, gli ‘intellettuali’, che senza essersi mai occupati attivamente di scuola pontificano sul suo fallimento). Pensiamo al tempo pieno nella scuola dell’obbligo, spesso rimasto come numero di ore ma non come metodologia di lavoro collaborativo, ai laboratori scientifici spesso non utilizzati anche se presenti, e soprattutto alla formazione universitaria degli insegnanti (uno dei 10 punti di Frascati) scambiata per il possesso di una laurea e di qualche credito formativo in materie pedagogiche. Come se per insegnare fosse sufficiente semplicemente conoscere la materia, o saper citare qualche pedagogista. Se si vuole combattere la resilienza, i cambiamenti devono essere essi stessi ‘resilienti’, compresi dagli addetti ai lavori, supportati per un tempo sufficientemente lungo, condivisi con chi dovrà viverli sulla propria pelle…. in pratica, una rivoluzione.
Michela Mayer