Un Paese che studia poco
La recente indagine Istat non va superficialmente archiviata. Sono d’accordo con coloro che definiscono quei numeri “una lezione per la politica” perché rivelano moti e patologie profonde della nostra società. Quel rapporto è un grido d’allarme sullo spreco di risorse e una sfida sociale. Tra gli altri aspetti, quello che personalmente mi preoccupa di più riguarda la “questione sociale” dell’istruzione che va insieme alla “questione economica”. Liberiamo il campo dalla passione per l’ovvio, ribadendo che la cultura è un bene in sé, che non si studia per produrre ma per sapere e, infine, che una società senza cultura non ha civiltà. La cultura realizza la persona, attraverso lo studio dell’interessato. Sì, l’intero campo di scienze e cultura sono prima di tutto no profit. Tale architrave, però, non è scalfito se si aggiunge la certezza che, se in un Paese si studia di più, crescono redditi e Pil. Non significa infatti che lo studio debba essere schiacciato sul Pil. Ma, allo stesso tempo, non si può non essere profondamente soddisfatti se l’aumento delle risorse per studio e ricerca aumenta la ricchezza complessiva dell’Italia. Dispiace, semmai, che una classe dirigente di governo non abbia capito tale ovvietà e che ci siano ancora coloro che sono convinti che con la cultura “non si mangia”. Costoro ignorano che una fetta consistente del nostro Pil proviene dalle imprese e dalle attività culturali. Tullio De Mauro ha di recente ricordato che “il Paese cresce se studiano tutti”. Eric A. Hanushek, economista dell’università di Stanford, sostiene (non da oggi) che “dove l’istruzione è di qualità migliore il Pil corre di più”. Alcuni leader illuminati lo hanno ben compreso. Il presidente Obama sostiene che nei prossimi 10 anni “quasi la metà dei nuovi posti di lavoro” richiederà un livello di istruzione più elevato della licenza di scuola secondaria. superiore, ed ha aggiunto che “non esiste politica economica migliore di quella che produce più laureati con le competenze necessarie per avere successo”. E in Italia? Aggiungo qualche dato: l’Italia è al quart’ultimo posto in Europa per numero di laureati (32,2% la media europea rispetto al 19,8% in Italia). Nel nostro Paese, dal 2005 al 2008, si sono ridotti i diplomati negli istituti tecnici (da 181.099 a 163.918). Si registra, inoltre, un “calo potenziale” della aspirazione a proseguire nell’educazione post-secondaria e si registra un calo effettivo delle immatricolazioni universitarie. Il profilo economico è intimamente connesso al profilo sociale. Solo la metà di coloro che finiscono nel (consistente) fenomeno definito degli ESL – Early school leaver, cioè gli abbandoni scolastici – trovano un lavoro. Tra coloro che abbandonano il 44% sono figli di genitori che hanno solo la licenza elementare e il 25% solo la licenza media. E da qualche giorno abbiamo (ri)scoperto i NEET (Not in Education, Employment or Training), ovvero quel grande numero di giovani che non studia, non lavora, non si aggiorna. In Italia questo esercito è il doppio della media europea (1.200.000 ragazze e ragazzi). Due terzi di questi giovani provengono da famiglie in condizioni “disagiate”. Da ultimo, aggiungo un dato che mi ha molto colpito (reso noto dall’Ocse): le persone più istruite vivono di più, sono più attive nelle proprie comunità e partecipano di più alla politica, commettono meno crimini. In questa particolare classifica dell’Ocse ai primi posti ci sono i soliti noti: Finlandia, Corea, Canada, Giappone. E agli ultimi Italia, Spagna, Cile, Portogallo, Turchia e Messico. Da qui deve ripartire la nostra riflessione. L’istruzione così organizzata (nonostante l’espansione numerica rispetto al passato) conserva discriminazioni sociali profondamente ingiuste (e anti-produttive). Coloro che abbandonano, coloro che non lavorano, coloro che non si aggiornano testimoniano il rischio di fallimento dell’istituzione scolastica, il rischio di un fallimento sociale e un fallimento individuale. Non si può dunque abbassare la guardia sulla “questione sociale” dell’istruzione. C’è un punto però che viene ancora messo poco in rilievo accanto alla richiesta di maggiori investimenti e di maggiori risorse: è quello che riguarda la qualità e la natura del modello educativo. Anche qui, per tornare all’ovvio, non c’entra nulla la sottovalutazione delle eccellenze e del merito. Un Paese che non coltiva e non sostiene i suoi talenti è un Paese che sbrana i propri figli e il proprio futuro. Credo che non si faccia mai abbastanza per le eccellenze. Ma una politica dell’eccellenza che significhi solamente selezione ed espulsione (verso la sottooccupazione) di chi non ce la fa è una bestemmia. Oggi è impensabile contrapporre qualità e quantità. Le statistiche ci dicono che i Paesi emergenti ottengono insieme più inclusione e più qualità. È per questo che occorre stimolare le diversità. Come sostiene Alain Touraine: libertà, uguaglianza e diversità. L’istruzione modellata sul soggetto, fondata sull’apprendimento, è assente dal dibattito politico italiano. occorre stimolare di più i giovani, con un’istruzione capace di valorizzare le diversità trasformandole in ricchezza, capace di sollecitare le vocazioni e le attitudini di ciascuno. Una scuola senza gerarchie interne tra cultura nobile e quella dei poveracci. Ciò fornisce capacità di ragionamento e, insieme, capacità di scoperta, gioia di creare. Logos, scienza, arte. Accanto alle indispensabili risorse proviamo a discutere anche di quale modello di scuola? Sarebbe il modo migliore di rispondere a numeri da brivido.
Questo articolo è stato pubblicato il 4 giugno 2011 su Europa.
Luigi Berlinguer