Modello americano e modello europeo: verso una “cross-fertilization”?

Nella storia e nella letteratura concernenti l’università è sempre stata frequente una dicotomia in termini di modelli organizzativi, quello europeo e quello afferente al Nord America.

Il primo è definito come il concetto di università classico che noi conosciamo. Accesso relativamente semplice, agevolazioni per i meno abbienti, primato dei docenti, che diventano anche decisori in termini di politiche universitarie, mancanza di campus e dunque comunità studentesca dispersa sul territorio.

Dall’altra parte, talvolta osannato e altre odiato, c’è il modello più direttamente proveniente dalla cultura anglosassone: quello americano appunto. Esso è caratterizzato dal concetto privatistico del settore universitario e dunque della profonda ingerenza di privati e lobbies sulla governance delle strutture. Di norma quella universitaria è pensata come una comunità a sé stante, autonoma, che integra insieme studenti e docenti anche creando uno spazio geografico abitativo comune, il campus. Una tecnica che prevede diverse borse di studio, assegnate per lo più sulla base di criteri meritocratici puri. Le tasse sono mediamente assai più alte che in Europa.

Talvolta si è tentata l’acquisizione di alcuni elementi del modello statunitense in Europa, creando delle interessanti sperimentazioni (come è ad esempio il caso dell’Università di Twente), inserendo un campus, un presidente e un consiglio di amministrazione con poteri decisionali fortemente superiori a quelli dei professori, che diventavano semplici impiegati di una simil-azienda.

Tuttavia questa via è rimasta poco battuta in Europa per via delle tradizioni diverse e delle caratteristiche dell’insediamento degli studenti, abituati a vivere nelle città e non nei campus. Elemento che secondo alcuni valorizzerebbe le città europee e le loro caratteristiche storico-artistiche, anziché rinchiudere la comunità universitaria in spazi esclusivi.
Da un altro punto di vista ciò ha prodotto nel tempo l’impossibilità di creare delle vere e proprie comunità accademiche coese, come succede negli Stati Uniti.
Inoltre ha impedito alle istituzioni universitarie stesse di proporsi in maniera più dinamica come vere e proprie imprenditrici di politiche così da diventare volano di sviluppo per i territori dove si trovavano.
Una mancanza di cui i nostri tessuti urbani e industriali risentono molto. E che rende ancora oggi quella universitaria una presenza che gli abitanti delle città stentano a recepire con benevolenza e apprezzandone tutti i vantaggi, in termini culturali, ma anche turistici ed economici.

Non risponderò in questa sede alla questione di quale modello possa essere migliore. Mi limiterò a osservare come, in un periodo in cui molti Stati europei si apprestano a intraprendere un percorso riformatore per le università, gioverebbe arrivare a una feconda cross-fertilization che portasse a poter far proprie anche alcune delle caratteristiche di modelli da noi tradizionalmente lontani.
Analizzando le possibilità di innovazione senza tabù o paraocchi ma come reali possibilità di ammodernamento e di uscita da rigidi schemi che troppo spesso hanno relegato il settore universitario europeo in un angolo rispetto alla competizione globale del sapere.

Per saperne di più:
https://www1.oecd.org/edu/imhe/37446098.pdf#page=8
https://webspace.utexas.edu/cherwitz/www/articles/gibb_hannon.pdf

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Damiano De Rosa