Alla ricerca del legame perduto. La scuola e il futuro della società
La scuola si avvia lentamente verso la pausa estiva. Se non fossero in corso gli Esami di Stato, con il carico di emozioni, di umanità viva e di attese, di qualche migliaio di giovani, sarebbero ancor più palpabile la sensazione di noia, l’immobilismo e la ritualità che caratterizzano la scuola. Rituali le polemiche e il dibattito su l’Invalsi, rituali le esternazioni del ministro di turno, rituale il dibattito intorno agli Esami di Stato e il loro debole collegamento con il mondo del lavoro e dell’Università. Questa condizione stride con la percezione più complessiva del Paese che sembra correre come mai si era visto prima: nel campo politico, economico, nel dibattito trai partiti e nella dialettica per le riforme istituzionali.
Eppure proprio in queste ore, il Consiglio dei ministri ha varato un Dpcm in cui vengono individuati i Comuni che potranno beneficiare dell’esclusione dal Patto di Stabilità interna (per gli anni 2014-2015) delle spese sostenute per l’edilizia scolastica. Si delinea così, per i prossimi mesi di quest’anno e ancor più per il 2015, un piano d’interventi che toccherà oltre il 50% degli edifici. L’investimento previsto è pari a un miliardo e 94 milioni di euro.
E se saranno circa 400 i cantieri del tutto nuovi, dovuti allo sblocco del Patto di stabilità, migliaia saranno gli edifici interessati a progetti di manutenzione e di messa in sicurezza. È, insomma, ai nastri di partenza l’intervento più massiccio che il Paese abbia mai visto sull’edilizia scolastica, dal dopoguerra ai giorni nostri.
Un piano che apre a un ciclo d’interventi che il Fondo Sviluppo e Coesione dovrebbe implementare fino al 2020. Il fatto poi che quest’ambito d’intervento sia affidato al sottosegretario Reggi, un altro sindaco prestato alla politica, è certamente motivo di rassicurazione e fiducia.
Da anni Legambiente ricorda a tutte le istituzioni che oltre il 60% delle scuole risale, come edificazione, a prima del 1974, quindi prima della ponderosa normativa antisismica, sulla sicurezza e sulla prevenzione incendi, realizzate successivamente. Dunque, un’operazione di grande rilievo. E se questa imminente stagione di lavori sugli edifici, saprà anche tradursi in un’opportunità inedita per praticare sul campo una campagna di educazione ambientale (risparmio energetico, raccolta differenziata, cura e ricerca di spazi verdi, valorizzazione del protagonismo studentesco per il decoro e la cura degli ambienti, ecc.), potremmo essere di fronte a una stagione davvero importante per la scuola italiana. Ne ha fatto cenno anche Renzo Piano, con la consueta genialità artistica e progettuale.
Che di tutto ciò si discuta così poco, sulla stampa e nelle stesse scuole, è abbastanza sconfortante. Come se le condizioni dell’ambiente in cui si svolge la vita della scuola, quella materiale, fatta ogni giorno di mura, locali, servizi e arredi, sia altra cosa dall’azione educativa che vi si realizza e dalla qualità delle relazioni tra le persone che vi s’incontrano. Pesa forse, in questa de-materializzazione del fare scuola, un’antica traccia di gentiliana memoria in base alla quale “il maestro è il metodo” e tutto il resto è inessenziale. Può darsi ma credo che oggi si manifesti anche altro.
L’assunzione dell’ambiente di lavoro come oggetto dell’azione umana è possibile solo in una condizione di approccio solidale, collettivo e intenzionale da parte chi vi opera. La marginalità dell’importanza dell’ambiente di lavoro e, ancor più, l’assenza di progettualità, sono il riflesso di un’esasperante condizione d’individualismo del personale della scuola. Sono l’esito, storico e pertanto non inamovibile, di questa crisi generale del Paese.
Non c’è solo il blocco della contrattazione, la stagnazione delle riforme, i concorsi mancati e quelli irraccontabili, la crisi della burocrazia ministeriale e i danni del Titolo V. Questa crisi, dalla cui narrazione sociale convincente siamo ancora lontani, ha colpito al cuore le relazioni sociali. Ha eroso progressivamente vincoli di solidarietà e vicinanza, ha sospinto sempre più le persone nel territorio della solitudine e dell’individualismo.
A scuola sono rimaste le cattedre, le classi, gli orari. Ciascuno vive la propria dimensione operativa in quest’ambito. Le vecchie sedi collegiali, sono deboli punti di passaggio burocratico in cui si ratificano decisioni e soprattutto in cui ci si difende da qualsiasi rischio d’invadenza altrui. I Dirigenti scolatici sono tornati Presidi e, a quanto mi dicono molti colleghi, funziona! Altro che ricerca di modelli di leadership democratica, così faticosi, rischiosi e dispendiosi. Vince un modello autoritario/burocratico che paradossalmente viene acquisito. Poche chiacchiere, niente discussioni, disposizioni brevi e la scuola va. E il patto corporativo si stringe immediatamente perché alla mancanza di dibattito e di ricerca, fa da contrappeso la difesa dell’esistente, la non invadenza nell’ambito personale, il potere di fare ciò che si crede senza condizionamenti, salvo quelli, del tutto rituali, delle norme che regolano il funzionamento generale della struttura. Vince la rassicurazione reciproca del “rispetto “dei ruoli individuali.
E in questo deterioramento delle sue condizioni umane e professionali, la scuola si avvita su se stessa, riproducendo con durezza i caratteri di una scuola classista “che cura i sani e respinge i malati” e isolandosi dal suo stesso contesto materiale: che senso ha, infatti, progettare spazi, immaginare luoghi e angoli di un edificio, quando al centro c’è solo il singolo individuo?
Questa dimensione profonda della crisi non è risolvibile solo con le politiche dall’alto, sempre auspicabili. Passa in primo luogo da uno sguardo concreto e disincantato della propria condizione lavorativa e degli esiti del proprio lavoro; esige di riprendere in mano il lavoro come valore e non solo come reddito, chiede di provare che cosa vuol dire lavorare insieme, scoprire la soddisfazione di progettare e raggiungere un esito condiviso, avere la curiosità di provare un percorso insieme, costruire passo dopo passo l’embrione di una comunità in cui scoprire che si sta meglio insieme piuttosto che ricacciati nei rischi del proprio individualismo.
Se vi sono scuole, e ci sono, che si misurano su questo terreno è perché qualcosa si è mosso dal basso, dalla partecipazione di ciascuno, dalla fiducia che insieme si può riuscire a cambiare. È dove si sono spezzati i legami profondi che bisogna tornare per ricostruire quei legami; ripartire dunque dal lavoro e dalle forme concrete in cui si svolge, dalle modalità e condizioni di lavoro; riscoprire la soddisfazione del riconoscersi in una impresa comune, in un lavoro ben fatto, in un riscontro sociale del proprio impegno, in una scuola accogliente di cui avvertire il senso di appartenenza.
I legami perduti: se da qui può ripartire una politica per la scuola, è ciò che resta da indagare ancora.
Immagine in testata di Aimee Knight (licenza free to share)
Dario Missaglia