Le medie, anello debole della scuola italiana?
Il Rapporto della Fondazione “Giovanni Agnelli” di fine novembre 2011 analizza con grande attenzione i dati sugli apprendimenti seguendo delle coorti di studenti dalle elementari al terminale della secondaria superiore di primo grado (terza media). Il risultato è che dopo valutazioni superiori alle medie europee e internazionali ottenute alle elementari (quarto anno, per l’esattezza) si assiste a un crollo delle medesime nell’ultimo anno della secondaria superiore di primo grado (per la stessa coorte, quindi), al di sotto delle suddette medie. Il crollo è più marcato rispetto a ogni altro paese. Di qui, la conclusione che l’anello debole del sistema istruzione è la scuola media. Non solo. Il MIUR pubblica i dati relativi agli esami conclusivi del primo ciclo sulla stessa coorte e miracolosamente risulta quasi tutta diplomata (99.6% degli ammessi, che comunque sono il 95.9% dei frequentanti il terzo anno). Pertanto, la Fondazione indica i due fallimenti della scuola media nel produrre una scarsa qualità degli apprendimenti a fronte di una crescita del numero dei diplomati. Quantità contro qualità. Per corroborare le sue tesi, la Fondazione riporta le risultanze dell’indagine Timss (Trends in International Mathematics and Scienze Study) e quelle di Invalsi Ocse-Pisa. Anche l’effetto barriera si manifesta in modo eclatante alle scuole medie: i ragazzi provenienti da famiglie acculturate hanno un punteggio superiore a quelli provenienti da ambienti familiari più modesti (vedi dell’autore “Analfabetismo: il punto di non ritorno”, Herald Editore 2011).
Insomma, la catastrofe si ha durante la scuola media e la patologia compare e si diffonde in modo canceroso al primo anno con un elevato tasso di bocciature. Cause? La forte frattura tra elementari e scuola media sembra dovuta all’improvvisa e aggressiva comparsa della differenziazione delle discipline, alle carenze didattiche e pedagogiche dei docenti “disciplinari” (particolarmente anziani in questa fascia dell’istruzione) nell’affrontare ragazzi provenienti da un ambiente di apprendimento completamente diverso da quello strettamente disciplinare, dalle criticità “specifiche” indotte dagli allievi disabili e da quelli stranieri. Soluzioni? Motivare gli studenti al lavoro cooperativo, aiutare i docenti a uscire dall’autoreferenzialità disciplinare, superare metodologie di insegnamento non più efficaci e ridurre la mole degli insegnamenti a pochi ambiti strutturati sui nuclei fondanti.
Mi viene da pensare che, se l’impianto disciplinare a fondamento dell’attuale architettura istituzionale, appena rivisitata dalla riforma degli ordinamenti (che, come tutti sappiamo, ha avuto il “difetto” di non aver seguito una linea di riforma culturale ma una semplice filosofia di politica economica finalizzata alla compattazione e la riduzione numerica di indirizzi e quadri orario), non è all’ordine del giorno della politica italiana, allora suppongo che le soluzioni di cui sopra siano riferite a oneri dell’autonomia scolastica e della sua responsabilità in merito all’aggiornamento e alla formazione dei docenti. L’una con l’altra. Da un lato, la flessibilità mai applicata e dall’altra, essenzialmente, la formazione alla flessibilità. Dove per flessibilità s’intende la “capacità di adeguarsi al cambiamento degli apprendimenti” e quindi di ripensare una didattica in grado di interloquire dialetticamente con il cambiamento.
Non credo sia così banalmente riducibile la complessità del problema alla responsabilità dei docenti e all’autonomia scolastica con gli usuali e ormai scontati automatismi della politica scolastica, cioè, riducibile alle questioni che si toccano con mano e, prima di ogni cosa, ti vengono in mente come facili bersagli da colpire. Perché come tutti sanno, l’autonomia non esiste, pur essendo stata enunciata nel celebre Regolamento. Investire nella formazione, dall’alto in basso (come la gerarchia istituzionale sa solamente fare) – o sperperare una massa di denaro – per trasmettere in modo frontale (con il trucco del virtualmente blended, magari con un pizzico di moodle) vecchi contenuti con nuove metodologie preconfezionate. Sistemi di trasmissione del sapere che il docente non accoglie più con favore.
Le cause, quelle invisibili all’occhio non esperto, sono altrove. Ne voglio indicare almeno due fra le più deflagranti. La prima è legata a gravi bug di sistema (diremmo in gergo informatico). La seconda, invece, è determinata da un profondo problema epistemologico (che tratterò più diffusamente in un successivo intervento). I dati hanno un gran valore se incastonati in un modello (e magari, una teoria), altrimenti sono freddi e privi di significato. Il modello mostrerà le ragioni dei dati raccolti dalla Fondazione. Penso che le conclusioni della Fondazione centrino il problema, ma l’analisi delle cause e le soluzioni proposte siano fra esse divergenti.
Il sistema formale dell’istruzione forma l’adulto in termini di discipline e le competenze maturate al termine dei percorsi tradizionali sono quasi esclusivamente di tipo disciplinare. L’adulto, però, nel sistema dell’istruzione si trova ad affrontare, a partire dall’infanzia, un protagonista dell’apprendimento completamente destrutturato, il bambino, che, come diceva Piaget, vede l’adulto come un gigante e tutto quello che lo circonda come un ammasso informe di oggetti e forme rispetto al quale “costruisce” le sue relazioni. Anzi, indotto dall’adulto, prima a costruire relazioni e poi, semmai, a identificare oggetti e forme. Relazioni, ovviamente, non lineari, reticolari, non alfabetiche, non sequenziali… relazioni! Per il bambino, quindi, l’apprendimento “complesso” anticipa quello disciplinare. Pertanto, da una fase iniziale completamente destrutturata, che emula il meccanismo di apprendimento del bambino, l’adulto deve pian piano inserire i dettami della conoscenza strutturata. Quest’ultima è costituita dalle singole discipline, ognuna con un suo statuto, con una sua deontologia, con una sua metodologia di lavoro. Quindi, se da un lato abbiamo l’adulto che deve destrutturarsi nella prima fase dell’insegnamento-apprendimento, nell’altro abbiamo il bambino che crescendo deve strutturarsi.
La Fondazione con i suoi dati rappresenta con molta evidenza il primo grosso e più preoccupante di questi “vuoti”: le difficoltà del bambino a costruire le sue prerogative disciplinari, con spazi e tempi giusti, nel passaggio dalle elementari alla scuola media. Il secondo “vuoto” è nel passaggio dal primo ciclo al secondo ciclo, senza alcun accompagnamento nel passaggio dal primo al secondo. Esiste un salto, molto repentino e ripido nei due “vuoti”. Il transiente temporale è molto breve, troppo!
Abbiamo le difficoltà dell’adulto a capire quando e come passare dalla forzatura che lo ha visto abbandonare le sue prerogative disciplinari a quelle in cui deve invece riassumerle integralmente, lasciando, comunque e sempre, uno spazio (indefinito) alla flessibilità.
Problemi tutti molto complessi che hanno in comune un chiaro e distinto elemento: sono tutti problemi di impianto, di pura ingegneria istituzionale “mal impostata” (come direbbe Fermi, e quindi mal riuscita).
Pertanto il vero problema è intervenire sull’impianto con un percorso o con dei possibili percorsi che consentano di risolvere le discontinuità introdotte dalle attuali transizioni, per dirla con Pellerey, che sono state individuate (non solamente dalla Fondazione) in corrispondenza dell’ingresso alla scuola secondaria di primo grado (scuola media) dalle elementari, e poi, nel passaggio crudo e fortemente non lineare dalla scuola secondaria di primo grado a quella di secondo grado (le scuole superiori) e, poi ancora, relativamente al passaggio dal primo biennio al secondo biennio, a quello dal secondo biennio al quinto anno, e infine, a quello nel mondo del lavoro.
Le prime due transizioni (quelle più disastrose) sono rappresentate in Figura 1 dalle criticità di base e concettuali evidenti dalla comparazione della prima e la terza colonna e in Figura 2 dall’interfaccia tra le due superfici grigie e rosse. È opinione dell’autore che esse siano responsabili della dispersione scolastica e, ancor più, dell’abbandono scolastico tout court.
L’attuale struttura prevede una tripletta di professori alle elementari, un consiglio di classe alle medie (superiori di primo grado, triennio terminale del primo ciclo) e un consiglio di classe articolato alle superiori di secondo grado. Articolato alle superiori perché mentre le medie si trascinano la tripletta dei docenti delle elementari (sulle materie letterarie e scientifiche) con qualche integrazione, alle superiori abbiamo per ogni disciplina uno o due docenti (quando è presente anche l’insegnate tecnico pratico). Quindi, in verticale, limitandoci alle materie scientifiche e iniziando dalle superiori di primo grado, abbiamo la situazione in Figura 1:
FIGURA 1. LA CRESCITA DISCIPLINARE. La prima colonna con il numero di docenti deputati all’insegnamento delle materie scientifiche. Nella terza colonna abbiamo rappresentato la natura epistemologica degli insegnamenti.
Con un solo docente (prima colonna) che guarda alle sue discipline come un tutto da organizzare come vuole, nel rispetto delle indicazioni fornite sui contenuti dalle programmazioni ministeriali, per il primo ciclo, e un numero N di docenti, ognuno con la sua materia e competenza, per il secondo ciclo di istruzione.
Contemporaneamente, sulla terza colonna, abbiamo un inprinting epistemologico della didattica che mostra una rigidissima continuità dall’infanzia con il trasferimento inalterato nel tempo di un “format” della didattica unilaterale. Questo “format” vede il fantastico mondo del bambino nella semplicità con la quale il bambino guarda al complesso trovando facile ogni collegamento e, immediata, quell’assimilazione di ogni tecnologia che costituisce il suo ambiente. Il bambino nella sua infanzia, com’è noto, assimila una quantità enorme di informazioni costruendo con grande facilità le correlazioni necessarie per rispondere ai suoi bisogni. Ovviamente, questo atteggiamento resta anche nel futuro ma non basta più. Crescendo il bambino ha bisogno di altri strumenti per crescere nell’ambiente sociale e questi strumenti sono strettamente correlati alle discipline e alla identità di queste ultime. Il suo approccio all’identità di queste discipline avviene sempre mediato e confuso dal bisogno di presentarle con un linguaggio limitato (pochi interlocutori) e uno spazio nel quale dividere il diritto all’esistenza di tutte loro (le ore a disposizione per fare tutte le materie, che per un docente restano sempre, e comunque, un pacchetto unico). Quindi, in termini di apprendimento, l’ambiente che si presenta nel primo ciclo è quello in cui la complessità dei fenomeni è vissuta “spontaneamente” in termini di scienze integrate e di unità del sapere scientifico (complesso indistinguibile, fluido e caotico): semplicemente, non potrebbe essere altrimenti.
A questo punto si passa al primo anno delle superiori e all’improvviso assistiamo a due fenomeni:
1. il primo è che lo studente si trova la scienza divisa nelle sue diverse materie (un ammasso di nozioni delimitato dal codice deontologico docente che appare con un linguaggio rigido e rigoroso per descrivere concetti e contenuti scollegati dalla realtà e dal quotidiano, ma pur sempre parte di un tracciato obbligatorio dove i fenomeni appaiono come esemplificazioni di un mondo di idee che presto o tardi scopriremo utile e, soprattutto, vero), frantumata nello statuto disciplinare di ogni materia, ognuna diversa dalle altre e, soprattutto, in competizione perché l’identità disciplinare è sinonimo di area di autonomia, di auto-referenzialità e di “proprietà disciplinare” con una tutela spiccata della propria area di non belligeranza;
2. il secondo è che il bambino passa da un mondo tecnologico, in cui il protagonista è lui, in quanto nativo digitale, dove la scienza è un mondo bello, ricco, ma a sé e in cui tutto è unito e uniforme nel modo in cui lo ha sempre recepito, a un mondo scolastico, in cui la tecnologia continua a essere il suo punto forte, ma la scienza si separa ancor più da lui perché, se prima esisteva separata dal contesto tecnologico, ora si frammenta in mille rivoli che non riesce più a gestire. La scienza e la tecnologia sono vissute come realtà diverse. Le basi frantumate delle discipline scientifiche restano sterili e prive di struttura per il suo sistema di apprendimento, comunque, totalmente scorrelate dalle tecnologie che lo circondano.
Quando, poi, lo studente passa al secondo biennio delle superiori (per esempio in un tecnico) si ritrova catapultato nella tecnologia e quelle basi scientifiche faticosamente archiviate da qualche parte nel suo sistema neurale, frammentate, sterili, e sospese nel limbo delle idee, vengono abbandonate in virtù di un bisogno programmatico che porta ogni disciplina tecnico professionale a divergere molto velocemente perché indirizzato al risultato quasi esclusivamente nozionistico. Ci si può meravigliare che oggi le culture, rispettivamente, scientifica e tecnologica, siano disperatamente lontane da rappresentare mondi paralleli? Altre “due culture”? Se qualcuno, guardando nel suo “particulare” non lo riconoscesse, basterebbe ricordare che oggi la tecnologia rappresenta un impero finanziario che si autoalimenta mentre la scienza e la sua ricerca sono sempre al limite della bancarotta.
È evidente che se la soluzione di questo drammatico problema deve essere affrontato dalla scuola, allora occorre rivedere tutto l’attuale impianto formativo e, per lo meno, rendersi conto che la crescita degli apprendimenti deve dare vita a un processo in cui l’identità delle discipline scientifiche (e di ogni disciplina) prenda il suo avvio non solamente dopo il primo anno delle medie o superiori di primo grado, come è mostrato nella Figura 2. Una prima forma di identità disciplinare deve poter crescere agli albori nel primo ciclo (su una percentuale rilevante, anche se non dominante, del percorso didattico – per esempio circa 40% del monte ore annuo flessibile) con il resto del tempo e dello spazio per valorizzare il complesso degli apprendimenti fisiologicamente integrati (intrecciato e annodato) che viene dall’infanzia (con la sua spontaneità, indisciplinata creatività – come ricorda Gardner nelle “Cinque chiavi per il futuro”), magari con un coinvolgimento di esterni e una partnership professionale creativa, come artisti, scienziati e letterati. Le frecce numerose tra la chiusura del primo ciclo e l’avvio del secondo ciclo rappresentano il terminale di un percorso che si sviluppa lungo i tre anni delle medie (magari invertendo le percentuali di peso delle elementari – 60% disciplinare e 40%, come dire, cultura integrata). Qui, è opportuno osservare che si innesca un complesso raccordo con le superiori dovuto da un lato alla corrispondenza (assente) tra il target del primo ciclo in termini di obiettivi e competenze e i prerequisiti di ingresso alle superiori. A questo si aggiunge la presenza dell’esame di Stato, con tutte le sue rigidità, a rappresentare il momento di chiusura di un ciclo e, allo stesso tempo, il contrappunto imposto dalle esigenze di continuità tra primo e secondo ciclo. Nel primo biennio delle superiori occorre così lavorare, senza soluzione di continuità, sull’identità disciplinare degli apprendimenti con l’80% del curricolo, valorizzando il lavoro delle medie e dedicando il 20% della flessibilità a recuperare e ampliare l’integrazione disciplinare con i “nuovi strumenti”, costruiti con le singole discipline, al fine di “conservare” e “ricreare” quella curiosità, questa volta disciplinata (che scatenano le discipline con le loro gloriose storie di invenzioni e scoperte) nella scoperta o la conferma delle proprie inclinazioni, le proprie aspettative. Nascono così le “curvature”, non perché imposte dall’ingegneria istituzionale, ma perché scelte dal piacere di costruire un proprio percorso, appunto, “personalizzato”. È quel che rappresentano le curve nella parte alta di Figura 2, escludendo per ora i percorsi professionali e l’istruzione superiore.
Per concludere, non si può pensare che la responsabilità dei dati sia ascrivibile solamente a problemi connessi alla scuola media o scuola superiore di primo grado o istruzione secondaria inferiore (con il beneplacito di chi ha il dono di inventarsi simili locuzioni). Non è un problema di “docenti vecchi o di docenti impreparati” (come sostiene la Fondazione) e neanche di una scuola media “infelicemente organizzata” per il raggiungimento di obiettivi quali il successo formativo o gli obiettivi di Lisbona. È un problema molto complesso, legato agli spazi e ai tempi impliciti dell’impianto e da tutto quel che comporta la messa in opera dell’impianto stesso, quindi, per esempio, i requisiti formativi del personale per ogni fascia di età… del quale si è voluto qui semplicemente anticipare qualche considerazione, ma che è oggetto del lavoro di molti gruppi di ricerca, fra tutti, quello del Comitato nazionale per lo Sviluppo della Cultura scientifica e tecnologica.
FIGURA 2. L’IMPIANTO RIVISITATO.
PER APPROFONDIRE:
Modelli e Strumenti per un’architettura dei percorsi didattico-formativi nel riordino dell’istruzione
Arturo Marcello Allega