Linee Guida per l’edilizia scolastica, un passo avanti?

Il documento del MIUR intitolato con la consueta prolissità burocratica: “Norme tecniche-quadro, contenenti gli indici minimi e massimi di funzionalità urbanistica, edilizia, anche con riferimento alle tecnologie in materia di efficienza e risparmio energetico e produzione da fonti energetiche rinnovabili, e didattica indispensabili a garantire indirizzi progettuali di riferimento adeguati e omogenei sul territorio nazionale” mi fa tornare tempestivamente su un argomento da me più volte affrontato in saggi, articoli, proposte e progettazioni: l’architettura degli spazi per l’apprendimento.

Il testo spinge a rimpiangere per qualche verso il caposaldo della normativa sull’edilizia scolastica italiana, il DL del 1975, mai superato perché mai di fatto applicato in tutti i suoi aspetti, soprattutto quelli dei principi pedagogici e didattici e delle premesse per una scuola sempre meno “statica”, che erano sicuramente apprezzabili.

Avrei voluto chiosare capitolo per capitolo il documento ricorrendo alle idee da me più volte esposte e pubblicate, oltre che condivise da esperti e pedagogisti. Mi sono accorto che seguendo lo stesso percorso sarei di nuovo caduto nella gerarchizzazione di un luogo che, per sua intrinseca natura, non potrebbe essere nemmeno descritto “per parti” . Riproporrò allora la mia lettura e la mia “linea guida” ricorrendo alle mie idee. Non ho mai avuto il piacere di essere coinvolto, pur avendo offerto la mia disponibilità, nella ricerca istituzionale sul tema, e questo è un peccato, non per me, ma per il contributo che si sarebbe potuto trarre dalla mia trentennale esperienza sul campo, come architetto e ricercatore, docente, amministratore locale e dirigente scolastico, per il dibattito sulla costruzione delle Linee Guida veramente innovative per quella che mi ostino a voler chiamare “architettura” scolastica.

Nell’esordire con questo “riassunto” per contribuire al dibattito corrente, mi permetto di citare, condividendone i contenuti, una nota del Prof. Franco de Anna a uno dei miei articoli su Education2.0 “La scuola diffusa: provocazione o utopia?” del 25 Gennaio 2012:

“1. La prima idea venne ai Gesuiti alla fine del Cinquecento. Collocare l’istruzione entro una “simulazione” di città quali erano i loro Collegi: il Tempio, le stanze, i loggiati, i cortili, una “vita intera” da contenere e regolare. La “città educante” dei Greci diventava “la scuola come città simulata” nella sua specializzazione formativa. Era una “città aristocratica” ed elitaria (per quanto gli stessi Gesuiti fecero, con la medesima “intuizione pedagogica”, esperienze assai più democratiche in alcuni paesi colonizzati dell’America Latina…). Forse sarebbe meglio dire “cittadella”.
2. L’istruzione di massa della seconda rivoluzione industriale ha costruito la scuola come “fabbrica” dell’istruzione, con un modello sostanzialmente tayloristico: pensate alla nostre aule in fila, alle scansioni temporali, alle sequenze “disciplinari”, alle “tassonomie” che regolano l’attività ed il lavoro scolastico. Non pensate a Taylor come un esperto di produzione industriale: si fece le ossa invece nel settore trasporti. Era un esperto in “logistica” diremmo oggi. Molto più vicino a Max Weber che a Ford… E noi abbiamo trasferito il paradigma “amministrativo” nell’organizzazione “specializzata” della riproduzione del sapere. Ma abbiamo mandato a scuola “tutti” (almeno come intenzione).
3. Il funzionalismo (cattivi allievi lecourbusieriani: che ne dici Campagnoli?) ha creato spazi più o meno assennati per contenere “funzioni”, dimenticandosi che dovevano essere “abitati da uomini” (anzi da “cuccioli ” di uomo in crescita) non da funzioni (ma non è così in certa nell’edilizia popolare?). E noi continuiamo ad essere preoccupati (è pure necessario..) di indicatori come i mq per alunno e come dimensionare le “classi” o i “laboratori”.?La sfida nelle parole di Campagnoli è quella di come si costruisce e struttura la “città dell’istruzione” recuperando i Gesuiti e l’esperienza critica della loro “cittadella”, destrutturando la “fabbrica” e recuperandone la vocazione produttiva di massa, immaginando un ambiente (spazi, tempi, abitanti e relazioni) che a sua volta reinterpreti nella nostra postmodernità il classico mito della “città come impresa educativa” di cui parla Tucidide. “

Ecco riordinate in un breve repertorio di citazioni e proposte tratti dalle mie numerose ricerche, una sorta di “Contro Linee Guida”.

GLI ASPETTI URBANISTICI

Le scuole, come tutti i civici e sociali monumenti, a parte le banali considerazioni logistiche e di comfort, non debbono essere periferizzate, ma debbono essere integrate con le aree residenziali e con quelle culturali e dei servizi principali delle città. Per questo abbiamo parlato di “scuola diffusa” per definire la non obbligata collocazione dei luoghi di una scuola in un unico corpus architettonico e in un unico sito della città.
“Alla fine della storia non sarà il caso di tornare alla scuola “diffusa” nella città e nel territorio come per i musei?
Un sistema già felicemente in uso nell’antichità dove la “schola” era una teoria di luoghi significativi e legati alle diverse attività di apprendimento: la scienza, le lettere, l’arte…
I poteri che oggi definiscono anche urbanisticamente i luoghi dell’apprendere (per lo più locali) dovrebbero aggiornarsi e riflettere.
Le amministrazioni responsabili, che si spera finalmente diventino una sola, la più prossima al territorio, non dovranno ragionare i termini di economia ma organizzare i loro servizi scolastici nel territorio in modo integrato, se necessario consorziandosi tra di loro nell’ affidare il disegno delle forme scolastiche a rigorose équipes multidisciplinari unica garanzia di successo architettonico e funzionale. La partecipazione dell’utenza alla progettazione, poi, per non essere solo demagogia dovrà essere indotta e non banalmente diretta o assembleare come spesso avviene: una partecipazione consapevole e competente che non prevarichi i compiti di chi per mestiere e specializzazione si occupi di concepire e costruire questi spazi, una partecipazione che si concretizzi in una specie di brainstorming di idee da tradurre scientificamente e stilisticamente”.

Non più un edificio unico e dedicato, ma una rete di luoghi per l’apprendimento.
La vera rivoluzione non sarà solo superare virtualmente il concetto gerarchico aule-corridoi-laboratori-uffici-servizi con delle mere pareti mobili (ricordo un nostro progetto di scuola media del 1977 che prevedeva flessibilità degli spazi con pareti mobili che l’amministrazione comunale e scolastica si affrettarono subito a rendere fisse per separare fisicamente gli spazi!), ma anche superare l’attuale concezione architettonica della scuola per adattarla al fatto che oggi si può apprendere ovunque, anche in movimento: una scuola peripatetica.

Qui le linee essenziali della proposta vista nell’assetto della città o del territorio che la scuola deve ospitare e accogliere. Oggi non si può più sopportare la scuola in un unico edificio.
La scuola non è statica ma quasi etimologicamente dinamica anche nello spazio oltre che nel tempo. Le modalità di fruizione delle informazioni, di apprendimento e di applicazione pratica non sopportano più i muri e i limiti di un unico luogo deputato.
L’architettura educativa dovrebbe adeguarsi alle nuove esigenze della conoscenza e della crescita delle persone e non può essere la stessa nei secoli.
Aldo Rossi con i suoi insegnamenti mi convinse che l’architettura disgiunge, nel tempo, la forma dalla funzione: non c’è miglior modo di concepire gli spazi per eccellenza, quelli dell’imparare.
Da una idea di architettura e di scuola che coincidono nasce forse una utopia che potrebbe, nel tempo, diventare una splendida realtà.
L’esperienza recente di un workshop internazionale mi ha fornito un modello da imitare per prospettare la scuola del futuro.
I discenti si muovevano da un luogo all’altro a seconda delle esigenze di apprendimento: una biblioteca, una chiesa, un laboratorio, un auditorium situati i diverse parti della città (il centro, il mare, il parco…) legate per funzione ai differenti learning objects.
Nel caso di studenti adulti non era problematica la mobilità da un luogo all’altro durante la giornata come avviene un po’ solo per l’università. Per le scuole di livello base o intermedio sarebbe sufficiente concepire quotidianamente un “orario di prossimità” con un sistema di trasporto integrato che consentisse di trasferire gli alunni, anche in continuità verticale (negli stessi luoghi e laboratori studenti dalle elementari alle superiori, a volte anche insieme!) ogni giorno in un posto diverso a seconda delle necessità di apprendimento e di applicazione.
Naturalmente la scuola va riorganizzata in modo estremamente flessibile per superare tutte le rigidezze dovute anche a una normativa disforica sulla sicurezza che assimila tout court i luoghi per l’apprendimento ai luoghi di lavoro con tutte le limitazioni del caso.
Riuscendo a concepire un insieme di regole ad hoc e adattando i diversi spazi della città alla frequentazione di classi e gruppi di scolari e studenti si muterebbe l’idea di scuola attuale tutto sommato ancora fissa negli spazi e nei tempi.

Ogni luogo pubblico della città (municipio, biblioteca, mediateca, laboratori, università) avrebbe spazi dedicati e attrezzati per “fare scuola” consentendo a gruppi di discenti di non fossilizzarsi per ore nello stesso ambito, sempre di fronte alla medesima lavagna, allo stesso panorama. Solo un edificio-base, che fungesse da manufatto simbolico, una specie di “portale” di ridotte dimensioni, ubicato in una parte significativa e centrale della città, con servizi amministrativi e luoghi di riunione non specializzati, potrebbe rappresentare la stazione di partenza verso le “aule” virtuali e reali sparse nel territorio, un primo luogo di rendez vous all’inizio della giornata di studio. Credo si possa cominciare a ragionare su questa idea e aprire un dibattito tra il popolo della scuola e pedagogisti, amministratori, progettisti.
Si supererebbe forse la rincorsa inutile a mettere a norma edifici scolastici che saranno fuori norma al prossimo aggiornamento di legge, per fruire invece spazi già in regola in cui inserire ambiti adatti all’insegnamento utilizzando tecnologie didattiche compatibili con il nuovo sistema.
Si farebbe tesoro delle esperienze dei campus e delle “cittadelle scolastiche” per gli aspetti virtuosi dei modelli e dei musei diffusi per quella loro preziosa valenza di territorialità e di invito alla ricerca ed alla scoperta.
I problemi logistici ovviamente presenti andranno studiati e risolti nella pianificazione della città integrando con l’istruzione tutti i servizi compatibili tra di loro come quelli culturali, della comunicazione, della mobilità integrata delle nuove tecnologie a basso impatto ambientale con una forte economia di scala.
Questa prima vera rete culturale con i suoi nodi simbolici potrebbe estendersi oltre la città fino alle altre realtà urbane e al territorio tutto estendendo il luogo dell’apprendere a una teoria di luoghi diversi e qualificati.
Il tempo scuola dovrebbe ovviamente essere rimodulato con valenza plurisettimanale lungo tutto l’arco dell’anno, per cancellare la mortificante rigida ripetizione di orari e attività giorno dopo giorno, mese dopo mese.
L’edificio-scuola, così come oggi concepito, lascerebbe il posto a una costruzione che funge da ingresso a una sorta di parco della conoscenza, sostituto innovativo delle aule tradizionali e degli spazi specializzati che ahimè, oggi ancora altro non sono se non aule diversamente arredate e attrezzate.

LA PROGETTAZIONE GLI SPAZI PER L’APPRENDIMENTO E PER L’ATTIVITÀ SCOLASTICA NELLA CITTÀ

Dalle premesse urbanistiche discende la libertà degli spazi per insegnare e apprendere avendo la complicità della città, della natura, della cultura.
Via la funzione e via la specializzazione. Avanti la ricerca, la curiosità e la scoperta che sono il sale della conoscenza. Nella mia vita ho appreso di più muovendomi e viaggiando (anche in rete) piuttosto che costretto in un luogo per troppo tempo. L’idea è una evoluzione del campus scolastico in una accezione urbana e territoriale.
Progettare una scuola a dimensione di studente e di cittadino è progettare la città e le sue parti in modo coerente e omnicomprensivo.
Ogni angolo della città e della campagna può essere un’aula.
Ci si ritrova nella “piazza” principale della scuola e da lì si parte con il proprio insegnante e la propria guida per il viaggio dell’apprendere: dentro o fuori, lontano o vicino. L’investimento si sposta dalla staticità alla mobilità. La flessibilità non è spostare una parete ma iniziare a “viaggiare”.
E non sarebbe tanto difficile una realizzazione concreta di questa idea.
Gli scuolabus elettrici o a metano che si vedono sempre più spesso trasportare scolaresche in gita, in palestra, in piscina possono essere le navette ecologiche integrate con una metro leggera di superficie e con una rete di percorsi pedonali e ciclabili nella “città” dell’educazione. Gli spazi si dilatano fisicamente ma anche virtualmente e il “pericoloso” tablet o smartphone alla portata di bimbo e adolescente può trasformarsi in prezioso strumento accessorio di conoscenza e ricerca.

“Alla fine della storia non sarà il caso di tornare alla scuola “diffusa” nella città e nel territorio come per i musei?
Un sistema già felicemente in uso nell’antichità dove la “schola” era una teoria di luoghi significativi e legati alle diverse attività di apprendimento: la scienza, le lettere, l’arte…
I poteri che oggi definiscono anche urbanisticamente i luoghi dell’apprendere (per lo più locali) dovrebbero aggiornarsi e riflettere.
Le amministrazioni responsabili, che si spera finalmente diventino una sola, la più prossima al territorio , non dovranno ragionare i termini di economia ma organizzare i loro servizi scolastici nel territorio in modo integrato, se necessario consorziandosi tra di loro nell’ affidare il disegno delle forme scolastiche a rigorose équipes multidisciplinari unica garanzia di successo architettonico e funzionale. La partecipazione dell’utenza alla progettazione, poi, per non essere solo demagogia, dovrà essere indotta e non banalmente diretta o assembleare come spesso avviene: una partecipazione consapevole e competente che non prevarichi i compiti di chi per mestiere e specializzazione si occupi di concepire e costruire questi spazi, una partecipazione che si concretizzi in una specie di brainstorming di idee da tradurre scientificamente e stilisticamente.
È una follia rincorrere le dispendiose “messe a norma” di contenitori impossibili per la loro vetustà da rendere sicuri e irrimediabilmente inadatti ad una funzione rapidamente mutevole.
Più saggio sarebbe investire sinergicamente a livello statale e locale nell’ambito degli indirizzi di un serio piano nazionale di sostituzione del patrimonio edilizio scolastico esistente utilizzando anche le risorse dei vecchi beni alienati, con tipologie architettoniche innovative, stilisticamente adatte ai contesti urbani, dove solo in casi eccezionali e di pregio si ammetta di procedere al restauro e riuso di edifici con diversa destinazione.
Le linee guida per la progettazione delle scuole potrebbero essere rigorose e omogenee su tutto il territorio nazionale salvaguardando le sole differenze tipologico-architettoniche regionali per non rischiare di omologare un tipo edilizio dell’istruzione “nazionale” e assecondare sani principi federalisti.
Oggi la scuola è tornata al centro dell’attenzione e non è un caso se anche a livello internazionale fioriscano concorsi, seminari e un dibattito serrato sull’argomento dell’architettura per l’istruzione del futuro.
Eppure la chiave di volta in ogni ragionamento restano sempre, ahimè, gli investimenti: si tenga presente che, in un triennio di pianificazione, ad esempio, la sola Gran Bretagna investe almeno 5 volte (!) rispetto all’Italia per la conservazione, il recupero e il rinnovo del proprio patrimonio edilizio.
Investimenti e qualità architettonica dunque. A lungo termine quest’ultima rappresenterebbe da sola la garanzia di economie e la fine della rincorsa agli interventi palliativi dispendiosi ma effimeri.
La qualità architettonica porterebbe con sé il valore formale dell’identità architettonica e quello funzionale, non disgiunto, della flessibilità rispetto all’uso didattico e alle inevitabili trasformazioni pedagogiche, senza trascurare le esigenze di innovazione tecnica e tecnologica, di sostenibilità dell’edificio, di durata e versatilità di arredi e sussidi, di confort ambientale ed estetico. Per una visione già pedagogica nella mente degli architetti” –

Tratto da: “E se la chiamassimo architettura scolastica?” La Rivista dell’Istruzione, Maggioli Editore

Nella visione sopra descritta non avrebbe più senso parlare di specializzazione degli spazi e di compartimentazione. La gestione della “rete” di spazi scolastici diffusi nella città avrebbe un polo unico amministrativo e direzionale.
L’integrazione con la città e con gli altri servizi scolastici di ogni ordine e grado facilita la fruizione “in rete” di tutte le strutture sportive e ricreative della città senza doverne costruire ad hoc per ogni singola scuola. L’uso di pachi, giardini campus sportivi diviene un momento del tempo scuola “diffuso” e integrato nel territorio.
I servizi, i materiali, la sicurezza, gli arredi sono quelli delle strutture didattiche che ospitano di volta in volta gli allievi in diversi luoghi e tempi della città. Luoghi che in altri tempi possono avere funzioni diverse con utenti diversi ma che sono allestiti e configurati in modo da ospitare attività didattiche per bambini, studenti adolescenti, adulti ma anche attività culturali e ricreative per tutti i cittadini.

La scuola si dilata nel tempo e nello spazio, aderisce al concetto di lifelong learning e trova luogo in ogni angolo a vocazione culturale della città ma anche del web, come sta avvenendo di fatto senza che gli ambiti fisici si siano adeguati rimanendo pervicacemente statici e gerarchizzati come alla fine dell’800.
La “scuola diffusa” sarebbe economica, sostenibile, innovativa, efficiente ed efficace.
Trasformiamo ove possibile tutta l’edilizia scolastica esistente in altrettanti poli di questa rete integrata da musei, teatri, biblioteche, parchi, attrezzature sportive, monumenti, municipi.

Apriamo gli spazi della scuola verso l’esterno e trasformiamo la città e i territori fisici e virtuali in una unica grande aula-laboratorio. A partire, ad esempio, da un progetto pilota in una piccola città.
Per poi ideare, finanziare realizzare in tempi brevi, come è avvenuto in altri paesi, un vero Piano organico Nazionale per l’architettura scolastica con il contributo di Regioni e Comuni insieme.

Giuseppe Campagnoli