La legge di riforma dell’università: conseguenze e prospettive
CHE COSA PRODURRÀ LA LEGGE?
Si può facilmente prevedere che – unitamente ai DM contemporaneamente emessi – essa ridurrà l’offerta formativa; aumenterà la presenza del personale precario; penalizzerà il merito e faciliterà le clientele come conseguenza della penuria di risorse e della facile aggirabilità delle misure di reclutamento. Limiterà drasticamente l’autonomia degli atenei e ne ridurrà le specificità attraverso il ripristino e l’accentuazione delle normative burocraticamente unificanti, di fatto sollevando di molte responsabilità gli organi decisionali (ai quali sembra sulla carta siano attribuiti i più ampi poteri).
CHE COSA NON C’È NELLA LEGGE
Per immaginare una proposta che si colleghi alle reali necessità del sistema d’istruzione superiore italiano è utile muovere dall’identificazione delle tematiche trascurate dalla Legge in analisi. Alcuni aspetti appaiono al riguardo di particolare rilievo:
• Significativa risulta innanzitutto la non considerazione dell’utenza. Gli studenti non sono chiaramente un aspetto di rilievo nell’ottica della Legge. Non risulta interessante né il fenomeno degli abbandoni (ancora persistente e in lieve costante aumento), né l’offerta formativa in relazione agli strati sociali più disagiati se è vero che del diritto allo studio si tiene conto in negativo riducendo le possibilità di attribuzione delle borse di studio. Questo disinteresse peraltro sembra prefigurare l’intento di ridurre informalmente l’accesso all’università scoraggiandone la prosecuzione a chi non ha (avrebbe) per carenze intrinseche i corretti capitali culturali.
• Le norme restrittive dell’autonomia degli atenei (i requisiti necessari nelle diverse accezioni) mirano a ridurre le possibilità per le singole università di collegarsi alle proprie realtà territoriali e di utilizzare al meglio le risorse interne disponibili, limitando di fatto i margini di libertà delle proprie politiche istituzionali. Da cui la contraddizione con la sbandierata rilevanza del potere degli organi centrali di ateneo: quale potere di gestione per quale politica autonoma?
• La genericità dei riferimenti ai momenti valutativi, confermata dalla persistente non utilizzazione corretta del CNVSU (Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario), assieme all’inutilità delle forme di valutazione delle attività didattiche a opera degli studenti, ai rimandi della attività del CIVR (Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca) e alla posticipata attivazione dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca), suggerisce lo scetticismo circa la reale intenzione di promuovere una politica legata agli incentivi alle buone pratiche.
• Le vicende dell’ANVUR e la gestione delle istituzioni destinate alla valutazione ripropongono più in generale – assieme alle regolamentazioni burocratiche ricordate – il tema della governance del sistema d’istruzione superiore e dunque della riforma del ministero dell’Istruzione, l’Università e la Ricerca Scientifica, con particolare riferimento sia ai suoi rapporti con gli atenei (comprendente tra l’altro la prospettiva del loro accreditamento), sia alla possibilità di rappresentare per le università un reale interlocutore scientifico-culturale per stimolare e premiare piuttosto che limitarsi a verificare l’uniformità alle regole standard.
QUALE UNIVERSITÀ APPARE OGGI UTILE E NECESSARIA?
I temi sopra indicati devono trovare – per avere un senso politicamente e culturalmente compiuto – una loro collocazione all’interno di un quadro di riferimento che li colleghi tra loro e produca uno scenario coerente e almeno in parte alternativo a quello che in modo piuttosto scomposto propone la Legge in esame.
Occorre dunque acquisire una visione delle funzioni e dei fini che si vogliono attribuire all’università oggi e da questi muovere per elaborare un modello di sistema d’istruzione superiore che a queste funzioni e a questi fini sia in grado di rispondere.
Negli anni più recenti a questo scenario si sono aggiunti sia la crescente crisi delle risorse pubbliche, sia la spinta alla privatizzazione dei servizi statali in nome di una supposta maggiore efficienza sostenuta dalle teorie neo-liberali. Il processo di globalizzazione dell’economia ha inciso, dal canto suo, sul ruolo dello stato nei confronti dei sistemi d’istruzione superiore spingendo verso una maggiore autonomia delle istituzioni formative. Queste sono state altresì sollecitate alla competizione per massimizzare efficacia ed efficienza del proprio funzionamento e sono state sottoposte, in conseguenza, a sistemi di valutazione delle performance, necessari per l’attribuzione delle risorse pubbliche.
L’insieme di queste trasformazioni ha riguardato molto marginalmente l’università italiana. Infatti, il mondo politico (i governi che si sono succeduti) non ha ritenuto, nei fatti, di dover porre il tema dell’istruzione ai primi posti dei propri programmi. Il mondo accademico non si è dimostrato interessato alle evoluzioni che altrove riguardavano il campo della conoscenza e ha resistito alle proposte di adeguamento ai processi internazionali quando gli sono stati proposti. Il mondo economico non ha avvertito una particolare necessità di ottenere contributi rilevanti dalla ricerca e dalla formazione terziaria. Il convergere di queste tre componenti dimostra la perifericità del paese in campo internazionale: le conferme vanno dalla scarsa utilizzazione dei laureati nei settori dell’economia ritenuti strategici alla riduzione delle risorse pubbliche (unite alla tradizionale modestia di quelle private) attribuite all’università e alla ricerca scientifica.
Ci si può porre allora una domanda in forma duplice: a che serve realmente l’istruzione superiore nel nostro paese e a cosa dovrebbe servire?
Nelle logiche dell’economia della conoscenza, come si vede, serve davvero a ben poco. Nelle logiche della società della conoscenza potrebbe servire e molto se ci si decidesse a riflettere sul significato di “società della conoscenza” per poi operare in tale dimensione.
LE RIFORME DELL’UNIVERSITÀ IN ITALIA
La realizzazione concreta delle innovazioni propone inevitabilmente un dilemma: regolamentare tutte le modalità dell’agire accademico o puntare sulle capacità di auto-riforma dell’accademia?
Oggi, per provare a rispondere all’alternativa, se non altro possiamo contare sull’esperienza delle riforme introdotte negli ultimi decenni dai ministri Ruberti e Berlinguer al fine di ipotizzare le possibilità di realizzazione della riforma del ministro Gelmini.
È opportuno, allo scopo, distinguere tra aspetti strutturali e aspetti di contenuto. I primi sono facilmente realizzabili: si ricordi la struttura dei curricoli della riforma degli ordinamenti didattici ai quali si possono assimilare i “requisiti necessari” di recente introduzione. Quanto agli aspetti di contenuto tutto dipende dalla disponibilità degli interessati a metterli in pratica: nella riforma degli ordinamenti didattici era evidenziata la necessità di modificare i contenuti dei programmi e degli insegnamenti oltre alle modalità dell’offerta formativa. Era altresì raccomandato il coordinamento regionale tra gli atenei e l’orientamento agli studi universitari doveva iniziare nel penultimo anno della secondaria. Nulla di tutto ciò è stato messo in pratica. Sulla base di questa esperienza è legittimo dubitare che misure innovative come l’impatto dei membri laici nei consigli di amministrazione e le diverse forme di valutazione avranno una reale incidenza nella vita delle università. È dunque assai probabile che i cambiamenti coinvolgenti i comportamenti delle categorie interessate possano realizzarsi solo attraverso un’opera di spiegazione e sperimentazione unita a incentivi (verifica e riconoscimenti dei comportamenti virtuosi). Anche in questo caso non sembra questa la via scelta dai riformatori.
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English abstract
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UNIVERSITY REFORM IN ITALY: CONSEQUENCES AND PERSPECTIVES
Some of the foreseeable consequences of the new reform of the university (together with a number of ministerial decrees) among others will reduce the general university offer, increase the number of precarious academic positions, and will in general make more difficult the relationship between the universities and the external world through a variety of bureaucratic measures limiting the individual university autonomy. The general centralization of the state control over the university system is perhaps the most evident result of this law.
What the law doesn’t take into consideration:
• Students’ condition is not included together with the retention problem and the economic support to those belonging to weaker social strata;
• The re-centralisation of academic power in the hands of the ministry makes the delicate topic of the individual university governance deprived of effective relevance;
• The ineffectiveness of systems of evaluation so far experienced justifies scepticism toward the evaluative institutions and measures include into the law;
• Past experience of the ministry performances suggest doubts about its future activities (included in the law) as for the running of higher education system.
What kind of university seems useful and needed: In recent years several events have changed the social and economic framework of the developed world in which higher education had to operate. These changes – from the relevance of higher education and research both in the knowledge economy and the knowledge society to the reduction of public economic resources to public services including education – have only marginally affected the Italian scenario. In fact, in this country the governments never really gave high priority to higher education and research, the economy didn’t require a substantial contribution from higher education for its development while the academic world resisted to all changes when introduced by law. Therefore, it seems that higher education is not very useful for the Italian knowledge economy, while it has not been discussed if and how it could be useful for Italian the knowledge society.
Again we are facing the dilemma on whether the implementation of university reforms can be successful through a strict bureaucratic set of rules or instead by giving confidence to the self-administration of the academic world. Past experiences suggest that structural aspects can easily be controlled and thus implemented while the content components require incentives to best practices to convince interested actors (the academics).
Roberto Moscati