Il lavoro, la persona, la scuola (con tre domande finali)

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Dobbiamo iniziare a chiederci come riorganizzare l’offerta di istruzione a fronte dei nuovi processi, come e su che cosa riprogettare il futuro della istruzione pubblica. A scuola non ci sfugge che il vecchio repertorio simbolico sul quale ci siamo formati noi e possiamo dire l’intera società italiana, dall’unità a oggi, è giunto al capolinea. Che senso ha oggi lo “scrivere, leggere e far di conto” di fronte a una generazione che soprattutto vede, ascolta, comunica con le nuove tecnologie? Certo la scuola non deve farsi invadere dalle nuove tecnologie, ma non può neppure ignorarle: deve farci i conti criticamente, ma questo è possibile solo se si possiedono competenze alte e una idea “motivante” di nuovo repertorio simbolico. La velocità e la densità dei processi di trasformazione sociale, economica, produttiva, ha reso “anacronistica” quella formazione scolastica che è stata centrale per una lunga fase. Questa scissione tra le tendenze della società e la formazione scolastica, è pericolosa e svuota soprattutto la scuola da un valore forte della sua tradizione: l’essere sinonimo di progresso, di crescita, di realizzazione della persona. Servono allora nuovi elementi simbolici, fortemente interiorizzati attraverso esperienze formative, in grado di offrire un nuovo principio educativo.

È da questa esigenza che nasce l’interesse verso le “competenze”; non perché ce lo imponga la Comunità europea o il mercato del lavoro, ma perché le competenze, offrendo un quadro più stabile e duraturo delle conoscenze in continua evoluzione (di cui ovviamente si nutrono), possono costituire quel nuovo quadro di riferimento di cui abbiamo bisogno, coinvolgendo la persona che apprende nella sua totalità (imparare facendo). Come? Provando nella pratica. Ricercando, anche in questo quadro così contraddittorio, come ripensare gli “ambienti” di apprendimento che non possono più essere la classe, la cattedra, e l’organizzazione del lavoro che abbiamo conosciuto sino a oggi.

La nuova frontiera dell’autonomia è qui, in questa nuova dimensione dell’educazione in cui lo spazio si è dilatato a dismisura e il tempo ristretto oltre ogni previsione; è anche la nuova frontiera della contrattazione che deve porre al centro i cambiamenti delle persone nella loro relazione con il lavoro. È in questa sperimentazione che possiamo cercare le risposte a queste domande: di quali persone, con quali competenze, ha bisogno la scuola dell’autonomia? E di quale contratto ha bisogno la persona che si misura in questo tentativo di cambiare l’organizzazione del lavoro?

Mi è già successo, ragionando attorno alle vicende della Fiat, di richiamare l’importanza di investire sulle proposte e sulle idee che i lavoratori stessi possono proporre per cambiare il lavoro. Incentivi e “premi” dovrebbero essere orientati a promuovere sperimentazioni con questo segno. R. Sennett, nel suo “L’uomo artigiano”, ci dice alcune cose molto significative su quale tipo di “esperto” sarebbe necessario per realizzare queste esperienze. Egli distingue tra “l’esperto socievole” e “l’esperto antisociale”; quest’ultimo sarebbe quello con la “sindrome di Stradivari”; esperti magari bravissimi ma talmente gelosi delle proprie competenze da tenerle nascoste agli altri e quindi, inevitabilmente, destinati a produrre conflitti e gelosie distruttive nel gruppo.

Guardiamoci da questi esperti e se ce li ritroviamo nella scuola, vuol dire che l’intera organizzazione è a rischio. Una buona scuola produce esperti socievoli, alimenta la cooperazione professionale, cura la circolazione delle idee e delle esperienze e ciò facendo, semina gli anticorpi giusti contro la sindrome di Stradivari. Gardner aggiunge che i criteri che definiscono un lavoro ben fatto devono essere chiari non solo agli altri lavoratori ma anche ai non addetti ai lavori. Solo in questo modo accettiamo di rispondere del nostro operato e di renderci conto di quali effetti abbia prodotto sugli altri. Insomma, la competenza socievole è trasparente, leggibile, valutabile. Il lavoro ben fatto è in primo luogo esigenza della persona che lavora, non del capoufficio.

Qualche appunto conclusivo sui tre soggetti che sono in campo.

1) LE ISTITUZIONI. Serve una politica in grado di ridare senso e motivazione al lavoro nella scuola perché i processi in atto richiedono la ridefinizione del mandato sociale della scuola pubblica. Ciò che mi preoccupa del malessere che alligna nella scuola è che non trovando una sua rappresentanza politica (anche a sinistra) e sindacale (la frammentazione e la divisione sindacale ne hanno duramente indebolito il radicamento in questa fase), questo malessere tende a trasformarsi in “mal di scuola”, malessere esistenziale che mina le relazioni interpersonali, induce al rafforzamento dell’individualismo e della solitudine professionale. E allora il rapporto tra persona e lavoro si fa malato e concorre all’esplosione di tante patologie (ce ne sono, e crescenti, nella scuola). A chi lavora nella scuola, ai dirigenti in primo luogo, resta il fare ricorso alle proprie capacità di motivare i lavoratori, di aiutare a trovare il senso di ciò che si fa ogni giorno, di rendere per quanto possibile gratificante e stimolante l’ambiente in cui si lavora. Anche questo vuol dire essere dirigenti e, lo confermo, in questo senso la pratica dell’autonomia come radicamento e apertura al sociale, è una grande risorsa.

2) I DOCENTI. Bisogna investire sulle persone, sulle loro competenze, nel loro interesse anzitutto, che è quello di poter aspirare alla autorganizzazione del proprio lavoro. Il contratto professionale non può non prevedere un certo numero di ore di formazione funzionale a un portfolio di competenze spendibili nella organizzazione del lavoro (funzioni di staff, di ricerca didattica, di sperimentazione, di progettazione ecc.). La scuola non ha bisogno solo di risorse e di organico “in più” ma anche di più cultura, più competenze, per essere in grado di modificare dall’interno l’organizzazione del lavoro e per essere all’altezza delle proprie responsabilità sociali. Sappiamo che non è facile; è un percorso lungo e complesso ma bisogna iniziare.

3) IL SINDACATO. Io credo che il sindacato non possa ritrarsi da un obiettivo fondamentale: riconoscere il lavoro e le sue differenze. Giustamente Bruno Trentin, in un articolo ancora leggibile sul sito della Fondazione Di Vittorio, ricordava come meritocrazia ed egualitarismo siano sostanzialmente due facce della stessa medaglia perché ambedue negano le differenze nel lavoro. Le solidarietà tra diversi nel mondo del lavoro non saranno vincenti se costrette a pagare il prezzo della invisibilità del lavoro; e più il lavoro resterà invalutabile, più si rischia di consegnare all’autorità o al burocrate di turno il potere di valutare discrezionalmente e unilateralmente le persone che lavorano. Insomma già intravvedeva come il rapporto tra persona e lavoro si sarebbe fatto più stretto, rimettendo in discussione i modelli e le regole contrattuali, lo stesso modo di pensare e di operare del sindacato. La personalizzazione della contrattazione, conseguente a nuove relazioni tra persona e lavoro, sarà prevedibilmente la frontiera sulla quale il sindacato dovrà misurarsi per essere protagonista e non vittima residuale dei processi in atto. Mai come oggi questo asse di riflessione riguarda anche la scuola e le persone che lavorano nella scuola. Sappiamo tutti che il lavoro, come diritto e valore, ha subito in questi anni un duro ridimensionamento. Il sindacato è stato visto come un nemico, uno scomodo intralcio alla modernizzazione liberista. Per questo è stato messo all’angolo e, diciamolo pure, un po’ da tutti.

In questo quadro di conflitto pesante, di riduzione del ruolo autonomo del sindacato, di politiche che anche nel nostro campo sono state recessive, riduzioniste, siamo stati costretti sulla difensiva e troppo spesso l’avversario ha determinato il campo di battaglia che lui aveva scelto. Ma nelle contraddizioni irrisolte del mondo del lavoro, ci sono tutte le potenzialità per riprendersi la parola e il pensiero.

Dario Missaglia