Il lavoro, la persona, la scuola
Nella Costituzione italiana il lavoro è nettamente sovraordinato alle istituzioni economiche (imprese comprese); la Repubblica “è fondata sul lavoro” ed è perciò il lavoro che fonda il mercato e non viceversa. Chissà se davvero i nostri grandi manager abbiano sempre presente questo dato fondativo ed etico dell’economia. La ragione fondamentale di questo primato del lavoro sta nella centralità del concetto di persona che permea tutti gli articoli della prima parte della Costituzione. In base a questa visione se vogliamo “personalistica”, il dato economico è solo la verifica concreta del processo di effettiva eguaglianza della persona; è insomma la piena realizzazione della persona che ci dà la misura della legittimazione dell’agire economico e della sua equità sociale.
Mounier sosteneva che la persona è “più” del lavoro anche se non sussisterebbe senza il lavoro; e se la persona non è riducibile al lavoro ne discendono alcune considerazioni interessanti (a parte l’invito a guardare anche se stessi, a non farsi “travolgere” dal proprio lavoro):
• Non possiamo valutare le persone ma le persone che lavorano in un dato contesto organizzativo (punto importante per le considerazioni intorno alla valutazione);
• È la persona che in ultima analisi può cambiare il lavoro (come organizzazione), con la sua intelligenza, creatività, competenza ; noi possiamo aggiungere, anche con la capacità di organizzarsi a livello sociale. Non esiste una organizzazione “scientifica” del lavoro cui la persona debba passivamente adeguarsi;
• Il miglior investimento per cambiare il lavoro è l’investimento sulla persona.
Alcuni processi, nel corso della storia, hanno modificato fortemente il rapporto tra persona e lavoro. Penso al superamento del fordismo (il taylorismo sopravvive eccome, anche nella sua versione tecnologico/ergonomica come nel caso della Fiat) e al dramma della condizione del lavoro oggi che sembra condannato dalla globalizzazione alla precarietà e svalutazione. Ma anche questo non è l’esito “scientifico” di un processo ma la drammatica assenza di una politica, di una ricerca, di un pensiero in grado di pensare diversamente il lavoro, l’economia, il modello di sviluppo.
Colpisce, in secondo luogo, il nuovo rapporto tra lavoro e conoscenza (anche nel senso di creatività, comunicazione), spesso rinvenibile persino nelle forme più contrattualmente deboli del lavoro. È definito lavoro di tipo cognitivo, impensabile fuori dalla rivoluzione tecnologico/informatica sospinta dalla globalizzazione. Eppure, malgrado queste percezioni, queste nuove forme del lavoro sembrano aprire l’orizzonte a nuove modalità di pensare e organizzare il lavoro, con una connotazione di “personalizzazione”, come mai era accaduto in passato. E allora questo non può non interessarci.
Ricerca e investimenti in questa direzione avrebbero potuto dirci molto di più; e Lisbona 2000 aveva acceso qualche speranza in questa direzione ma oggi è chiaro a tutti che il fallimento di quella strategia è il segno politico della destra europea che ha smobilitato Lisbona. Ritroverà l’Europa l’ispirazione originaria di J. Delors e degli entusiasmi che aveva alimentato?
Mentre la recente e devastante crisi del capitalismo, non solo finanziario, ha aperto persino negli USA una riflessione molto fertile sui limiti di un modello di sviluppo centrato esclusivamente sulla espansione senza limiti dei consumi individuali, da noi fatica oltre ogni misura ad affermarsi il bisogno di ripensare a una politica della domanda in cui le politiche pubbliche (territorio, salute, educazione/istruzione, ambiente, ricerca e cultura) potrebbero concorrere ad aprire una prospettiva concreta per il rilancio di consumi collettivi funzionali alla realizzazione dei beni comuni.
E potrebbero essere i territori, le nostre città e comuni, i luoghi in cui iniziare a esplorare nuovi sentieri di sviluppo? Quanto lo sviluppo locale orientato a nuovi consumi sociali e beni comuni può promuovere un processo che favorisca la valorizzazione di arti e saperi, nuovi prodotti, stili di vita, nuove forme di produzione organizzazione del lavoro?
La scuola non è estranea alla densità dei processi che ci lasciamo alle spalle e che oggi segnano anche il nostro lavoro. Ed è indubbio che sia pure in un percorso discontinuo e denso di contraddizioni, il nostro Paese sia riuscito, alla fine degli anni ’90, a realizzare un obiettivo straordinario di cui dovremmo tutti essere orgogliosi: la scolarizzazione generale e piena delle nuove generazioni. Per i piccoli, i preadolescenti e giovani, la frequenza scolastica è oggi la modalità ordinaria della loro condizione di vita (malgrado tutti gli scompensi noti). E questo, non dimentichiamolo, era ancora un’utopia negli anni della “nostra” adolescenza (anni ’60). Questo obiettivo è stato raggiunto in primo luogo con lo sviluppo incessante della forza lavoro docente e anche la stessa autonomia scolastica. E l’assenza di una politica di riforme ha finito con il consolidare, quasi fosse un prodotto “naturale”, il nucleo fondativo del lavoro nella scuola: la cattedra e la classe, l’orario individuale, la disciplina insegnata come l’identificazione professionale della persona che lavora.
Se condividiamo questa analisi, ampiamente suffragata da tante inchieste e ricerche, vuol dire che ci rendiamo conto che:
• L’aspirazione a una migliore condizione sociale per effetto di una maggiore scolarizzazione, ha perso, per così dire, la sua “spinta propulsiva”; gli esclusi di un tempo sono entrati nel territorio proibito. Lo hanno desiderato, rivendicato, perseguito con sacrificio e tenacia. In quella fase, la scuola di Stato ha potuto così godere di una grande considerazione sociale e la pressione della domanda di istruzione, ha facilitato l’espansione dell’offerta di istruzione, innanzitutto come espansione quantitativa della scuola di Stato.
• La fine del ciclo espansivo, che è sotto i nostri occhi, determina pertanto nuove criticità. La prima, per i docenti certo la più sconvolgente, è il mutamento, in tutti gli ordini di scuola, della composizione sociale delle classi. Oggi “sono tutti stranieri”, mi confessava pochi giorni fa una docente molto impegnata: insomma un universo oscuro, tutto da esplorare e non riconducibile ai vecchi schemi. Resta è vero, la vecchia struttura classista ereditata dal passato (la piramide che dalla vetta del liceo arriva alla base dei professionali) ma gli studenti non sono più gli stessi di una volta e la saturazione della domanda apre nuove scenari di fuga dalla scuola (la cosidetta generazione “neet” che non studia e non lavora). La seconda criticità sta nel fatto che sono andate deluse molte attese; la scuola non si è tradotta in sinonimo di mobilità sociale (e da sola la scuola non può esserlo) e la crisi delle attese tende a trasformarsi in sfiducia, caduta di attenzione, svalutazione di un apparato nel frattempo divenuto costoso. Lo spazio di “propaganda” verso la scuola privata si apre proprio qui.
In sostanza, sappiamo con certezza che la generale scolarizzazione non si è trasformata automaticamente in una scuola per tutti. I limiti oramai evidenti e gravi della attuale scuola media, la dispersione e l’insuccesso ancora così pesanti nel biennio delle superiori; l’avanzare minaccioso di una generazione di giovani che non studia e non lavora, sono segni evidenti di nuove contraddizioni che avanzano trascinando con sé anche i residui del passato.
Le rilevazioni nazionali e internazionali ci stanno offrendo molti dati utili per riflettere su questi processi. Ne abbiamo bisogno di queste rilevazioni, senza mitizzare nulla, con la necessaria soglia critica verso ogni forma di rilevazione, ma senza negarne la necessità perché ciò concorrerebbe solo a demolire l’autonomia scolastica; perché l’autonomia non ha prospettive se si separa dalla responsabilità sociale dei risultati che la scuola determina.
Aggiungo che questa eventuale separazione non solo sarebbe esiziale per la scuola dell’autonomia ma offrirebbe una formidabile opportunità all’ideologia “meritocratica” che avanza. L’unica alternativa a questa deriva è rendere conto socialmente dei risultati; è porsi davvero come soggetto della sussidiarietà del diritto all’istruzione in quel territorio. Se la scuola non si radica nel territorio, non entra in relazione con interessi, conflitti, dinamiche sociali e produttive di quel territorio, vuol dire semplicemente che essa non è valore sociale meritevole di attenzione, di risorse, di investimento.
E allora, perché so che questa è una nota di attualità, possiamo criticare i test Invalsi (dopo averli letti e meditati) e avere ben chiara la loro parzialità, dobbiamo certamente criticare le modalità con cui si sono scaricate sulle segreterie delle scuole, su alcuni docenti, dei compiti aggiuntivi (e costi aggiuntivi), ma non dobbiamo cadere nella trappola corporativa che ci farebbe leggere come la scuola e il sindacato che si ritrae dalle proprie responsabilità.
(continua)
Dario Missaglia