L’autonomia accerchiata? – di Giuseppe Fiori

Autonomia scolastica e direzione unitaria d’indirizzo sono le cifre del sistema d’istruzione pubblica del nostro Paese. Un sistema che non rinuncia alla conoscenza anche quando privilegia la competenza e che tenta di esprimere percorsi educativi e formativi la cui molteplicità dei linguaggi possa corrispondere alle nuove esigenze della società in uno scenario in cui l’apprendimento è dilatato ben oltre il mondo scolastico.

Il principio costituzionale dell’autonomia delle istituzioni scolastiche giunse, nel 2001, al culmine di un lungo percorso, iniziato negli anni ottanta, che, in assenza di una legislazione di sistema, aveva visto estendersi un protagonismo scolastico particolarmente dinamico, soprattutto nella secondaria superiore.

Sembrava, dunque, essere arrivati in quel breve arco temporale, tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro, alla conclusione di una fase e al decollo di un’altra già consolidata negli assetti ordinamentali.

Non tutto è andato così, com’è noto, per una moltitudine di fattori, primo fra tutti l’aspra contesa ideologica sulla scuola nel primo decennio di questo secolo tra Riforma targata Berlinguer – De Mauro e Restaurazione successiva e, nel secondo decennio, sulla Buona Scuola con effetti negativi perfino sul referendum costituzionale.

Ma ora che tutti questi aspetti appaiono in via di archiviazione rimane un’articolazione organizzativa a processi decisionali diffusi che, lungi dall’essere funzionale allo sviluppo dell’autonomia delle scuole, ha finito con l’essere invece funzionale solo al mantenimento di uno status quo di scarsa efficacia ed efficienza.

La pluralità degli enti e degli apparati che sono riusciti a ritagliarsi potestà e competenze in tema di organizzazione scolastica e curriculare – di fatto imbrigliando il dinamismo e l’innovazione che sono tipiche espressioni del principio di autonomia – ha certamente consolidato le singole maglie di quella rete, provocando, per altro verso, un effetto di disarticolazione del sistema di istruzione e formazione.

Se è vero che è il tipo di ordinamento a determinare la tipologia organizzativa da adottare, è anche vero che quest’ultima, come apparato esistente,  condiziona in buona parte le stesse scelte ordinamentali. Un esempio lampante è rappresentato dagli organici delle scuole, una leva rilevante in termini finanziari e organizzativi, che lo Stato non ha mai voluto cedere alle Regioni e che è trasversale a tutto il sistema di istruzione

Una scelta opinabile anche alla luce del percorso interpretativo tracciato dagli orientamenti, ormai consolidati, della Corte Costituzionale, che vedono le Regioni titolari dell’organizzazione e della gestione territoriale del servizio scolastico, ivi compreso il personale, mentre le scuole, nella loro autonomia funzionale, responsabili, in via esclusiva, di tutti i profili connessi all’erogazione del servizio (cfr., in particolare, le sentenze n. 14/2004, n. 200/2009, n. 235/2010 e n. 92/2011 e n. 147/2012).

E, in generale, all’autonomia della scuola non ha corrisposto una, almeno parziale, cessione dei poteri da parte degli apparati statali, principalmente per (non ingiustificate) motivazioni di lievitazione incontrollata della spesa per l’istruzione. D’altro canto anche le organizzazioni sindacali hanno tenuto ben presidiato il vasto recinto della gestione del personale scolastico (“l’azienda più grande del Paese”!), senza alcuna rimodulazione dei rapporti rispetto alla situazione pre-autonomistica.

 

 

Sembra necessaria una seconda stagione di più incisiva spending review che, come leva del cambiamento per il riordino delle priorità, potrebbe realizzare nel settore un duplice salutare risultato: il recupero del grave ritardo accumulatosi nella definizione di un assetto organizzativo stabile e certo e il rilancio del Ministero nel suo ruolo di garante dei diritti fondamentali tutelati dagli articoli 33 e 34 della Costituzione. Restituendo allo stesso dicastero quell’identità perduta – o comunque col tempo fortemente appannata, anche in conseguenza del distacco dalla realtà educativa che la funzione ispettiva contribuiva a realizzare –  di principale promotore di sviluppo della scuola italiana, oltre che luogo di sintesi di tutte le politiche territoriali, a salvaguardia della unitarietà del sistema nazionale di istruzione e formazione.

Muovendo da questa consapevolezza, l’apparato burocratico andrebbe riprogettato intorno al nucleo essenziale di funzioni disegnato dall’originale processo di riforma che, partendo dal riconoscimento dell’autonomia scolastica e passando per il decentramento amministrativo e burocratico delle funzioni, è infine approdato alle modifiche costituzionali approvate nel 2001: indirizzo, programmazione e regolazione; supporto allo sviluppo dell’autonomia responsabile delle istituzioni scolastiche; valutazione, controllo e rendicontazione sociale (accountability).

Certo quest’approdo avrebbe potuto avere un diverso e più esplicito segno se il referendum popolare del dicembre 2016 avesse confermato la riforma del Titolo V. L’esito negativo ha invece lasciato in vita un funzionamento conflittuale delle potestà legislative distribuite tra Stato e Regioni e in particolare della potestà legislativa concorrente (1), che era stata soppressa.

Vale la pena, infatti, ricordare che la potestà legislativa concorrente o ripartita definisce una legittimità a legiferare dello Stato e delle Regioni con diversa intensità: mentre al primo spetta di fissare con le sue norme i princìpi fondamentali, le Regioni hanno il compito di svolgere questi princìpi organizzando e adattando la loro legislazione alle condizioni e agli interessi locali, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Nei tre lustri in cui ha operato la riforma del Titolo V del 2001 il “concorso” si è spesso risolto in “conflitto” di competenze, un braccio di ferro politico e istituzionale che si è spostato spesso alla Corte Costituzionale, le cui sentenze hanno tentato di chiarire alcune ambiguità di fondo. Secondo una statistica all’epoca riportata da Il Sole XXIV Ore, la Corte ha dovuto far fronte a più di 1600 ricorsi sul conflitto di competenze Stato – Regioni in quello stesso periodo. La Regione più conflittuale nei confronti del potere centrale è stata la Toscana seguita dalla Provincia autonoma di Trento e da quella di Bolzano, ma nessuna si è sottratta al duello.

L’art. 31 della legge costituzionale aveva ridisegnato l’art. 117 della Costituzione e, da un confronto con l’indicazione precedente, balzava agli occhi la controspinta politica esercitata rispetto al 2001 con la riduzione dei poteri delle Regioni che, nei tre lustri, oltre ad alimentare un massiccio contenzioso costituzionale, non avevano, in diversa misura tra Regioni c. d. virtuose e meno, saputo sufficientemente contenere i costi dei loro servizi e dei loro apparati.

A suggello di questo schema c’era la clausola di supremazia: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva (1) quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.”

Il referendum popolare ha cancellato questo schema di riduzione dei poteri regionali e la lunga partita centralismo vs federalismo, si è per ora conclusa a vantaggio del federalismo.

Così, giusto alla fine della scorsa legislatura e a seguito di un referendum consultivo promosso da Lombardia e Veneto, è stato perfezionato tra lo Stato e l’Emilia Romagna (che non ha ricorso al voto popolare), la Lombardia e il Veneto un accordo preliminare su quattro materie – istruzione, sanità, lavoro e ambiente – che dovrà essere ratificato in questa legislatura. Questa sorta di autonomia variabile o differenziata è ipotizzabile che faccia da apripista anche per altre regioni, rientrando pienamente nei binari costituzionali.

 

 

È bene ricordare, infatti, che l’art 116 della Costituzione ha previsto “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, in tema tra l’altro di istruzione, che possono essere attribuite alle Regioni, con legge statale, su iniziativa di quelle interessate, sentiti gli enti locali.

Una strada difficile, impervia e diversificata per le tre regioni in questione che è ancora lungi dal vedere il suo compimento. Il minimo comune denominatore delle tre regioni è costituito dalla maggiore efficienza nelle spese e nell’erogazione dei servizi ai cittadini, un traino per reclamare la necessità di ridurre la quota dei trasferimenti allo Stato delle entrate tributarie relative ai settori decentrati.

E, per quanto attiene alla scuola, ferma restando l’unicità d’indirizzo in capo allo Stato e il contratto nazionale del personale è facilmente ipotizzabile che le problematiche coinvolte saranno, tra l’altro, quelle relative ai moduli organizzativi (nei quali possono essere ricomprese molte o molto poche questioni) e agli incentivi locali per i docenti.

Sarà questo l’accerchiamento in cui verrà ristretta l’autonomia didattica e organizzativa delle scuole?

E’ certamente un rischio, dato che il proliferare degli apparati pubblici e il frazionamento delle competenze sono vizi comuni al centralismo e al regionalismo.

Un sistema articolato e complesso come quello dell’istruzione in Italia per funzionare al meglio delle sue possibilità deve delineare con chiarezza la correlazione esistente tra poteri d’indirizzo e poteri gestionali, tra centro e periferie, altrimenti si riproporrà il conflitto mai sopito tra neocentralismo e neofederalismo. E il rischio dell’autonomia scolastica è quello che corre un vaso di coccio tra vasi di piombo.

I troppi e troppo frazionati apparati burocratici possono frantumare, di fatto, l’autonomia, perché se è vero che senza la loro struttura non è possibile adempiere alle principali funzioni amministrative, è altresì vero che le esigenze della loro stessa struttura finiscono col prevalere sulle funzioni da svolgere.

Questa sembra essere la colpa esclusiva della burocrazia di fronte alle potenziali virtù della politica. Diciamo però che il mondo delle colpe e delle virtù è assai più variegato e nessuna lama ideologica può operare una  separazione così netta.

Da qui l’opportunità di un’inversione di rotta, ancor più necessaria nella fase in cui si potranno sperimentare moduli organizzativi più attenti alle esigenze territoriali, nella consapevolezza della funzionalità di un ecosistema educativo i cui poli siano, appunto, le scuole e tutti quegli altri luoghi di produzione culturale, di innovazione e snodi di gestione che ne potenziano e completano i compiti.

 

 

NOTA (1)

L’art. 117 della Costituzione ha fissato le materie, anche in tema di istruzione, in cui lo Stato esercita una potestà legislativa esclusiva (cioè le Regioni non possono legiferare al suo posto) e le materie in cui le Regioni hanno una potestà legislativa esclusiva ed è quindi per esse esclusa una legge statale.

Su altre tematiche ammessa una potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, che legiferano, appunto in concorso tra loro con diversa intensità: infatti mentre al primo spetta di fissare con le sue norme i princìpi fondamentali, le Regioni hanno il compito di svolgere questi princìpi organizzando e adattando la loro legislazione alle condizioni e agli interessi locali, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Giuseppe Fiori