L’insostenibile leggerezza delle riforme (seconda parte)
Un elemento di forte impatto con la riforma della secondaria superiore è la tardiva e complessa attuazione delle norme sulla scuola contenute nella legge costituzionale n. 3/2001 di modifica al Titolo V.
Una visione per così dire settoriale del ciclo secondario, qual è quella derivante dall’art. 64, ha il rischio di non dare la giusta impostazione ai raccordi tra istruzione tecnica e istruzione professionale.
In tutti e due gli ordini i relativi percorsi sono diventati quinquennali e, nel corso degli anni, hanno perfino realizzato talune significative coincidenze. Ne è testimonianza l’uso dello strumento delle passerelle da un percorso all’altro.
Ma soprattutto manca, a tutt’oggi, un quadro ordinamentale certo dove siano ridisegnati i rapporti tra istruzione professionale e formazione professionale che la norma costituzionale ha posto sotto la potestà esclusiva delle Regioni, proprio nell’intento di ricomporre, in capo a un’unica autorità, i due segmenti che l’originaria norma costituzionale aveva separato.
Questo riordino (anche qui il termine sarebbe appropriato), nell’intento del legislatore costituzionale, è diretto a realizzare un’importante integrazione di sistemi tra politiche educative e politiche formative nelle filiere professionali.
Integrazione di sistemi che certamente si avvarrebbe di notevoli sinergie finanziarie al Nord, per la maggiore prosperità dei conti regionali, come al Sud, per i finanziamenti europei.
Il settore professionale è quello che maggiormente, con l’istruzione tecnica, sopporta il peso economico della dispersione scolastica in Italia e questa è una delle due grandi priorità di intervento normativo, educativo ed economico da realizzare.
L’altra priorità, come è stata messo in luce da molti, è il rilancio dell’istruzione tecnica sulla base della “definizione dei programmi delle discipline – come ha detto De Toni su Education 2.0 – a partire dalle competenze attese in uscita, passando attraverso l’individuazione delle abilità, per arrivare alle conoscenze che rappresentano lo snodo verso le discipline.”
Il ritardo di questo primo decennio del secolo nell’affrontare e portare a compimento riforme che potevano essere condivise ha pesato gravemente nella relazione tra istruzione e disuguaglianza sociale. È come se l’aumento della scolarità non avesse spinto significativamente la mobilità sociale: le analisi dell’Istat, gli studi di Antonio Schizzerotto e di Carlo Barone, le diagnosi di Daniele Checchi sono tutte lì a dimostrare come il muro della disparità socio-educativa non sia affatto caduto. Con un costo non solo sociale ma anche economico elevato.
I precetti costituzionali degli artt. 3 e 34 sulla rimozione degli ostacoli e sul patrimonio rappresentato dai capaci e meritevoli indicavano, invece, proprio l’obiettivo dell’abbattimento di quel muro. Per questo la rotta va orientata oltre che sul contenimento della spesa e sul riordino delle tante asimmetrie, su un disegno complessivo più coraggioso e lungimirante che sappia utilizzare gli anni scolastici dell’attuale legislatura come un periodo transitorio verso un nuovo sistema nazionale di istruzione.
Le premesse non mancano: l’autonomia delle scuole, in dieci anni, si è consolidata e attende di vivere una stagione più adulta, la proliferazione delle sperimentazioni appartiene ormai agli anni ottanta e novanta, l’attuazione del dettato costituzionale sul c.d. federalismo scolastico non è più rinviabile, la stessa composizione della popolazione scolastica è profondamente mutata, l’economia richiede talenti, flessibilità e competenze. Dunque non è più il tempo di un quadro ordinamentale in cui i vari ordini si muovano esclusivamente con logiche proprie, aggiungendo un’altra fila di mattoni al muro già alto della separazione.
Le innovazioni attuate in questo decennio – autonomia, elevazione dell’obbligo, riforma ciclo primario, alternanza scuola-lavoro – erano state tutte preparate dalle scuole negli anni novanta, per questo hanno potuto e possono funzionare; ora è il tempo di preparare, attraverso i nuovi strumenti regolamentari, in un periodo di transizione, una nuova architettura più elastica, costruita con materiali meno pesanti e che sia dislocata nel territorio con una definizione reale e non formale della governance. Con la considerazione che le risorse professionali espresse dai docenti sono un investimento sociale fondamentale che deve avere un costo sostenibile non solo per il bilancio dello Stato, ma anche per la vita professionale del personale della scuola. E con l’ulteriore considerazione che i tredici anni di scuola (spesso preceduti dai tre della scuola d’infanzia) sono un periodo troppo lungo e inutilmente diluito per le sfide del XXI secolo.
A quest’ultimo proposito varrebbe la pena, finalmente, di porre la seguente domanda: che scenario educativo avremmo avuto in questo decennio se sulle logiche abrogative e ricostruttive avessero prevalso logiche autenticamente riformatrici?
La risposta renderebbe chiara la necessità di recuperare il tempo perduto.
Giuseppe Fiori