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Il paradosso della formazione. Parte I. La crisi dell’educazione di Arturo Marcello Allega

Pubblicato il: 23/01/2019 11:04:41 -


Alcune osservazioni sulla formazione dell'insegnante nella scuola pubblica.
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L’articolo tratta della formazione dell’insegnante nella scuola pubblica e sostiene che l’attuale impianto formativo vive criticità insanabili, a loro volta correlate a confusioni interpretative dei ruoli e le funzioni, rispettivamente, della scuola e del docente. Queste criticità, opportunamente raccolte, conducono a due grandi contraddizioni, l’una, alla radice di quella che qui descriviamo come la crisi dell’educazione e l’altra, alla radice di quella che indentifichiamo come la crisi dell’istruzione. Queste due contraddizioni rappresentano le fondamenta di quello che definiamo il paradosso della formazione; quest’ultimo, però, in realtà, introduce l’elemento più ermeneutico in assoluto dell’attuale complessità didattica: il digital transformation. Per la necessità di spazi obbligati all’analisi dei diversi aspetti di questo problema, abbiamo ritenuto opportuno dividere il testo in due parti. Il questa prima parte ci concentriamo sulla crisi dell’educazione, nella seconda parte, che seguirà nel prossimo numero, mostreremo come la crisi dell’educazione e dell’istruzione sono gli elementi costitutivi del paradosso della formazione, senza il superamento del quale l’insegnamento resterà sempre un problema irrisolto.

La redazione

 

 

La questione “formazione” è complessa ed è difficile darne una versione semplificata. Assumendo che il nostro interesse sia la scuola, quindi, la formazione del personale della scuola, limitiamoci al personale docente, cioè, agli insegnanti e all’insegnamento.

Quando si parla di formazione dell’insegnante appare quasi scontato che il docente debba essere formato su tutto quello che concerne l’educazione e l’istruzione dei ragazzi. Ebbene, è il caso di chiarire una diffusa confusione, all’origine della questione formazione degli insegnanti.

Sappiamo tutti che l’equazione “educazione = scuola” o “educatore = insegnante”, non solo non è così scontata ma, è decisamente fuori luogo.  La scuola non è ‘costituzionalmente’ (cioè nella sua natura) un organismo nato per “educare”. O meglio, la scuola non è la struttura civica prioritariamente deputata all’educazione. Il compito di “educare” spetta prioritariamente e, in modo esclusivo, alla famiglia. La famiglia, poi, delega ad altre strutture sociali parte di questo compito, quello di educare, come alle parrocchie, alle associazioni culturali (si pensi ai ‘boy scout’), alle società sportive, alle società musicali, e così via. Quindi, in primo luogo, le famiglie, e in secondo luogo, parrocchie, associazioni culturali, enti pubblici e privati di assistenza e sostegno sociale, si occupano di educazione. Il vocabolo educazione, infatti, comporta diversi significati: educazione alla relazione, educazione all’alimentazione, alla cura del corpo, alla politica, alla vita civile, alla parità di genere, e così via una infinità di declinazioni.

In questo senso, anche la scuola è una comunità educante, nel senso che le famiglie delegano ad essa molti compiti. Ma la scuola è una comunità educante “particolare”, con un fine ed una costituzione specifiche: l’istruzione. La scuola istruisce. L’educazione si forma lungo la via dell’istruzione e con l’istruzione. L’istruzione è il centro dell’azione scolastica ed è intorno ad essa che si costruisce l’educazione. L’istruzione è istruire (dal latino in-struere, che significa “costruire-in”) e, quindi, educa alla disciplina (in tutti e due i sensi – dice Gardner nelle sue “Cinque chiavi per il futuro”[1]– di materia e di regola, rigore) cioè “conduce dalla disciplina” a tutto il resto. Quindi, la disciplina resta, comunque e sempre, il cuore dell’istruzione e per istruzione non bisogna mai dimenticare che, si intende, in definitiva, costruire ‘con e per’ la disciplina.

 

Proprio a tale proposito, è d’obbligo fare un’ulteriore importante digressione.

Il docente è, per sua formazione, identificabile da due chiare e distinte caratteristiche: la prima è che viene da una formazione esclusivamente disciplinare; la seconda è che il docente è costruito (professionalmente) come una macchina per la ‘didattica trasmissiva’, perché si è formato per 17 anni, prima 13 nella scuola e, poi, almeno 4 sotto la ferrea disciplina universitaria, dove la docenza è, ed era, improntata su una esclusiva, ma anche rigida, didattica frontale (ex cathedra)[2].

Quindi, non è difficile comprendere che quel che l’insegnante riceve, poi, è quel che l’insegnante da (o meglio, è quello che può dare).

Ebbene, se questa è una premessa obbligatoria, allora, nel primo caso (la formazione disciplinare), assumendo che il docente sia stato ben formato sulla disciplina dall’università, uno dei suoi limiti (per costituzione-natura professionale) è la (molto) limitata acquisizione delle conoscenze trasversali o delle competenze per la vita (pedagogiche, psicologiche, relazionali, emozionali, o tecnologiche e digitali, con tutte le conseguenze che comportano nella didattica queste innovazioni, dalla didattica digitale alla didattica per competenze…), semplicemente perché mai trattate.

Nel secondo caso, l’autoformazione sulla didattica trasmissiva, dalla scuola all’università, introduce un problema di ordine specificamente metodologico: il docente conosce, ed ha un vissuto, solo e solamente sulla didattica “trasmissiva”. La didattica trasmissiva, oggi, è ritenuta ‘brutta e cattiva’ (anche se, in principio, non lo è sempre), semplicemente perché non funziona più e, allora, il docente deve essere edotto alle nuove tecniche metodologiche come il cooperative learning, il peer to peer, l’apprendimento in situazione o situato, il ‘flipped classroom’, l’IBSE (Inquire Based Science Education) o il PBL (Problem Based Learning) e così ogni altra innovazione metodologica.

 

È così nasce la prima grande contraddizione: la crisi dell’educazione.

il docente è preparato sulla disciplina ma non è preparato sia sulle competenze trasversali, sia sulle metodologie innovative. Non è in grado di “condurre da, … a” perché non sa come fare (non ha le competenze) e conosce solamente una metodologia di lavoro univoca, unilaterale e a senso unico, cioè trasmettere. Per le competenze trasversali non basta la pratica quotidiana. E siccome le metodologie innovative sono intrise di competenze trasversali (gestire la dinamica di una classe significa gestire relazioni), il docente è impreparato sugli aspetti più qualificanti dell’educatore.

Quindi, per concludere questa prima parte, dobbiamo constatare che il docente disciplinare, per come sono fatti i suoi “geni”, non è preparato ad essere un educatore e, ancora, il docente non è preparato ad una didattica ‘non trasmissiva’.

 

 

 

[1] H. Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli, Milano, 2007

[2] A parte quelle rare, e pur entusiasmanti, esperienze collaborative di laboratorio scientifico che ricorda Primo Levi in Primo Levi, Tullio Regge, Dialoghi, Einaudi, 2005.

Arturo Marcello Allega

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