Cambiamento nell’istruzione, ma senza generare panico
Il copione rischia di essere sempre lo stesso: si raccolgono e si commentano dati non certo confortanti sullo stato degli esiti del lavoro scolastico, si richiede a gran voce l’inserimento di discipline più o meno abbandonate o ridotte, si lamenta la distanza tra scuola e culture dell’oggi, si chiede maggiore attenzione e riconoscimento per chi insegna, amministra e/o dirige i vari istituti, ma, come al solito, la proposta d’intervento non riesce a sollecitare reazioni meditate e riflessioni mirate, perché si determinano subito contrapposizioni e reazioni, non sempre composte, che non favoriscono la “ponderatezza” che la materia pretende.
Sicuramente gli avvicendamenti alla guida del Miur accrescono l’effetto di disorientamento (facendo i conti, se ci fermiamo solo all’aspetto tempo, gli ultimi 4 ministri sono durati mediamente un anno e mezzo, Fioroni due anni, la Gelmini tre, Profumo un anno e mezzo, la Carrozza meno di un anno, la Giannini…..) e la continua concitazione con cui si tratta il problema “scuola che deve cambiare” non aiuta a tener conto dei termini del problema.
Cerco di non pronunciarmi né pro né contro le proposte attuali del governo, ma piuttosto di indicare quali sono, a mio avviso, le quattro questioni che ormai non sono più dilazionabili.
Nel mondo attuale un sistema formativo non può che essere un sistema di lifelonglearning, di questo sono parte importantissima, ma non esclusiva, le istituzioni scolastiche. Ho fatto riferimento agli ultimi 4 ministri, perché nel 2007 si sarebbe dovuto determinare un passaggio importante, il prolungamento a 10 anni d’istruzione obbligatoria per garantire solide basi e orientamenti consapevoli per i/le giovani in età e, contemporaneamente, si sarebbero dovuti istituire, su base territoriale, centri dedicati all’istruzione della popolazione adulta, superando logiche di recupero e attivando processi di promozione e di opportunità aperte a nuove scelte (l’attenzione alle professionalità specifiche per questo settore ne qualificava il senso).
La perversa congiuntura astrale di politiche di “ir-razionalizzazione” delle attività scolastiche e di “il-logicità” di tagli di spesa hanno vanificato quanto di utilmente nuovo si sarebbe potuto fare per una popolazione, nel suo complesso, culturalmente debole.
Le quattro questioni.
1) Qui la prima questione: come si rimette in moto la macchina?
A tagli indiscriminati, a soppressione di discipline, ad affrettate e mal digerite ridefinizioni di materie si può rispondere solo con un serio e riflessivo ragionamento sulla dimensione trasversale, sugli sconfinamenti e gli specialismi delle culture del mondo globale, riletti – tutti –, nelle dimensioni formative delle quali, non solo i giovani, ma l’insieme della popolazione, hanno bisogno, ricordando che non s’impara solo ascoltando, ma discutendo, tacendo, pensando, lavorando in ambienti accoglienti e con diverse figure portatrici di cultura ed esperienza, che non sono soltanto docenti forniti di timbro e bollo delle discipline di afferenza.
Come si misurano le nuove proposte con queste necessità?
Sarebbe utile cominciare da qui, immaginando che in una scuola “rammendata” in modo intelligente, non si debbano necessariamente fare ore e ore di lezioni frontali in cui si susseguono, senza senso, discipline molto diverse, giustapposte secondo logiche puramente temporali.
2) Provo a nominare quella che mi pare la seconda questione: qual è la dimensione che permette di misurare risorse disponibili e bisogni? Sicuramente non è individuabile in quella che porta a decidere a viale Trastevere il numero degli alunni per classe con relative deroghe, meglio se si tratta di BES o di migranti; non sarà facile ma sarà necessario definire ambiti territoriali, sufficientemente omogenei, in cui i bisogni siano misurabili e riconoscibili e le risorse, gli interlocutori, gli attori sociali e culturali, le imprese e i lavoratori siano coinvolgibili in un “impegno per il sapere”, che riguarda tutta una comunità, se comunità non deve rimanere un nome vuoto.
In molti dei paesi del nord Europa e anche in quelli di lingua inglese si parla di “risorse per l’apprendimento permanente”, forse sarebbe ora di cominciare a ridisegnare le nostre comunità in una prospettiva di questo genere.
3) La terza questione è sicuramente il confronto con organizzazioni rappresentative delle imprese, grandi, medie, piccole, piccolissime e con rappresentanze sindacali. Se i contenuti del “Jobs act” non scendono nella concretezza di un confronto con la realtà del lavoro, si perde un aspetto dell’educazione alla cittadinanza che, nelle società di oggi, si realizza ancora nello scambio sociale e nell’inclusività di un lavoro dignitoso.
4) La quarta questione è sicuramente la definizione delle professionalità che servono e che si valorizzano nel lavoro legato alla formazione; solo in un confronto col sindacato su questi temi si riuscirà forse a uscire dalla retorica degli “eroi malpagati” e dalla piaga del precariato per trovare dignità e senso a un lavoro che, se non si appiattisce su stanche consuetudini, dovrà essere plasmato sulle tante occorrenze che oggi si richiedono a chi si prepara alla vita adulta e chi, da adulto, dovrà fare nuove scelte.
Mi viene un’ultima domanda: ma perché in tutti i paesi (penso a quelli che hanno partecipato all’indagine OCSE Talis) non esiste il problema delle supplenze brevi? I docenti degli altri paesi sono più in buona salute degli italiani o forse sono organizzati meglio?
Ah, saperlo! Saperlo, diceva qualcuno.
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Immagine in testata di Geralt /Pixabay (licenza free to share)
Vittoria Gallina