De Mauro, i’ vorrei che tu Mastrocola ed io…
La lettura sul Corriere degli articoli pubblicati da Mastrocola e De Mauro, rispettivamente del 16 e il 17 maggio scorsi, ha stimolato la mia riflessione e il desiderio di dare una diretta testimonianza sulla diatriba che sembra dividere i due, dico sembra perché non v’è dubbio che entrambi sono animati da una ineludibile passione nei confronti della scuola e del suo destino. Che cosa li divide però?
Cerchiamo di capirlo. Anch’io come l’insegnante di Torino, sono un uomo di scuola. Ve ne ho trascorsi trentotto come docente di Italiano e Storia e tre come preside sempre nello stesso tipo di istituti, i professionali di Stato. Ho letto l’ultimo libro della Mastrocola “Togliamo il disturbo”, così come la maggior parte delle sue opere precedenti dedicate all’argomento a lei e a me caro. Li ho sempre trovati pungenti e graffianti e ne ho sempre ammirato la scrittura, piana, veloce, ricca di argomentazioni ben articolate; e lo stile, arguto, ironico, talvolta sferzante. Qualche volta, lo confesso, l’ho invidiato quello stile. Veicolava un pensiero fermo, sicuro, mai dubbioso, teso a stanare le storture della nostra macchina scolastica e i suoi responsabili, anch’essi chiari, certi, individuabili, e a stigmatizzarne i limiti, le debolezze, le squallide meschinità.
Io non ho fatto il suo percorso. Non ho registrato il graduale depauperamento delle capacità di studio, di concentrazione, di attenzione, di disponibilità al sacrificio dei ragazzi che ho incontrato nelle mie classi. Penso a quel sacrificio che ha in mente la Mastrocola, che se lo compi, domani ti premia, ma che ti emargina e ottunde se lo aggiri. Gli studenti che ho incontrato io erano già stati selezionati dai precedenti gradini di istruzione sulla base di presunte “procedure” di orientamento che avevano individuato non ciò per cui erano idonei ma ciò di cui certamente non sarebbero stati capaci; si trattava pertanto di studenti “non in grado” di continuare gli studi, anzi gli Studi ma di dedicarsi a una formazione subito orientata a predisporre lo studente al lavoro. Per essere chiari, non in grado di frequentare i licei classici o scientifici.
Mi si spiegava sin dagli anni Settanta che questa opportunità rappresentava un alto traguardo di sensibilità democratica: offrire ai “non in grado” l’opportunità di completare un percorso scolastico comunque, al riparo dalle inarrivabili sollecitazioni cognitive della scuola Vera. La Mastrocola mi direbbe che questo lavoro di filtro ha funzionato per garantire fino a ieri (ahinoi, ormai tutto è cambiato) a quei ragazzi “in grado” di trovarsi in classi piene di loro simili, in un clima di interesse, curiosità, raffinata intelligenza e spirito creativo. Tutte qualità che vanno valorizzate, protette, affinate e salvaguardate. Ovviamente.
Io non ho vissuto, nella mia non breve esperienza di insegnante, il disagio, l’imbarazzo, direi la frustrante contrarietà di dover assistere allo spreco di intelligenze depredate delle loro possibilità di espansione perché costrette in contesti inadeguati e disattenti.
Io mi sono trovato dinanzi a ragazzi spediti in percorsi di studio (ritenuti da coloro che li spedivano, ma non certo per loro intrinseca natura) più idonei alle loro possibilità, in quanto studi semplificati, ridotti all’essenziale, preconfezionati, mnemonicamente predisposti per essere meccanicamente assimilati e restituiti. Proiettati insomma verso un orizzonte culturale, se così vogliamo dire, a loro più accessibile, verso una prospettiva di studio contrassegnata da un apprendimento più idoneo alle loro possibilità. Questo l’ho scoperto quando proponendo loro l’analisi di un testo letterario o la riflessione sulle cause di un evento, mi sono trovato davanti a studenti che ritenevano che questo non fosse loro compito e che a loro spettasse invece ripetere la vita dell’autore o la trama di quell’opera, o raccontare i fatti descritti in quella pagina di Storia perché tutto il resto spettava ad altri, a quelli del liceo, a quelli in grado. E li ho visti difendere la loro diversità da indebiti travalicamenti, perché fosse chiaro che chi li aveva mandati lì non li aveva abilitati ad andare oltre. La Mastrocola direbbe: “Ma forse non lo erano, era giusto che stessero lì a fare altre cose, a loro più utili, o almeno per loro più sensate”.
Nel suo articolo “Il Paese cresce se studiano tutti”, De Mauro, in risposta a quello della Mastrocola, in apertura si chiede se le finalità ultime della scuola non siano quelle di affinare i modi per arrivare al maggior numero di persone possibile e non di rivolgersi primariamente (o esclusivamente?) alle ragazze e ai ragazzi disponibili ad accogliere il nostro insegnamento. Se così fosse non sarebbe a pieno regime la scuola ma al servizio di quella ristretta cerchia di studenti che vi profittano: uno su venticinque, per la docente torinese. Penso che De Mauro si chieda se possiamo fare a meno di una scuola che funzioni a pieno regime, se cioè possiamo accontentarci di quelli che ci seguono senza nulla tentare nei confronti di quelli che si mostrano recalcitranti. Ma questo interrogativo sottintende chiaramente che i disinteressati alle lezioni della Mastrocola debbano/possano a certe condizioni entrare nella cerchia dei pochi oggi presenti, che esistano o che comunque si possano mettere in campo strategie che puntino a renderli disponibili. Si tratta di un tema oggetto di confronto da quaranta anni all’interno della scuola: possiamo fare a meno di una scuola che… funzioni con l’obiettivo di far venire la voglia di studiare (se davvero non ce l’hanno) anche agli altri ventiquattro alunni della professoressa Mastrocola?
Di questo travaglio pedagogico che investe i temi della motivazione allo studio e delle condizioni attraverso le quali superare gli ostacoli che differenziano l’approccio degli studenti alla scolarità, a partire dagli anni Sessanta la scuola è stata investita, spesso con modalità non scevre da pesanti e talvolta asfissianti ideologizzazioni. Ma che ne è stato? Nessuno ne sa più niente? È tutto svanito?
De Mauro ci informa che una risposta ce l’hanno fornita certi studiosi nordamericani i quali hanno analizzato il variare del reddito in rapporto al variare dei livelli di istruzione e hanno visto che la crescita di scolarità e dei livelli di istruzione rappresenta un fattore decisivo per gli incrementi di reddito dei diversi Paesi. E poi rileva che l’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche economico. Come dubitarne?
Ma non è di questo che occorreva convincersi: ciò che bisognava contrapporre alle affilate argomentazioni della Mastrocola era il dubbio che la disponibilità allo studio si possa costruire a scuola e non trovare soltanto bella e pronta nello studente; occorreva chiedersi se in Italia, dopo cinquanta anni di scuola di massa, di storture, di chiacchiere insulse e di contraddizioni, al riparo da altre esiziali riforme costruite senza pensare a un adeguato e serio reclutamento degli insegnanti, sia possibile riportare il dibattito sull’istruzione nei termini in cui intelligentemente ma forse elitariamente la Mastrocola lo pone. E lo fa con un pensiero forte che provo a evocare:
“Io insegno a chi mi segue, a chi condivide con me, perché lo sente, il fascino e la suggestione delle mie proposte di studio. Il numero delle persone che mi seguirà dipenderà dal grado di interesse che susciterà loro quel che dico. Io non proverò a dirlo in altro modo per fare più adepti, per la semplice ragione che il modo in cui lo dirò sarà quello per me migliore possibile. Io non so perché quei pochi mi seguono e quei tanti se ne fregano e comunque indagare sulla magia che attrae alcuni e fa fuggire altri non è mio compito: continuerò ad amare quei pochi e cercherò di preservare le loro qualità coltivandole. Agli altri non posso dare nulla se non quel che amo e nel modo in cui lo amo. La voglia? Gliela facciano venire i genitori a suon di restrizioni, di divieti, e, se il caso, punizioni”.
C’è ancora qualcuno dentro il mondo della scuola che crede che gli studenti non si dividono in geneticamente votati alla cultura e sfaticati impenitenti ma che gli uni e gli altri sono persone su cui e con cui lavorare, che non ha abbassato l’asticella abdicando allo studio vero o continuando a spedire “i non in grado” ai livelli bassi dello studio. E che ha colto quello che la Mastrocola giustamente paventa nel suo libro e cioè che se abbassiamo il tiro “azzoppiamo definitivamente proprio le classi meno abbienti e facilitiamo enormemente le classi socialmente avvantaggiate… che sono in grado di integrare le lacune della scuola attuale”?
Partiamo da qui, gente di scuola, e facciamoci sentire!
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De Mauro, i’ vorrei che tu Mastrocola ed io
Fossimo presi per incantamento
E messi driento a una classetta che ad ogni vento
Del minister rispondesse col voler nostro e mio.
Sì che Gelmini od altro tipo simil
Non ci potesse dare impedimento,
Anzi, trovando alfine un sol talento,
Si stare insieme crescesse ‘l disio.
E monna Scuola e monna Cultura poi
Con tutto quel che di loro si consuma
Da noi si concertasse e si rifacesse viva:
E quivi ragionar sempre di miglioria
E ciascuna di lor potessimo aggiustare,
Sì come credo ne abbiam bisogno noi.
Per approfondire, tutti gli articoli del dibattito:
• Carlo Ridolfi, “Che Roba, professoressa…”, Education 2.0, 11 marzo 2011
• Tullio De Mauro, “Teste vuote”, Internazionale, 3 maggio 2011
• Dino Messina, “De Mauro contro Mastrocola: ‘Smettiamo di attaccare la scuola pubblica’”, Corriere della Sera, 16 maggio 2011
• Paola Mastrocola, “Chi ha ucciso il tema in classe è il vero nemico della scuola”, Corriere della Sera, 16 maggio 2011
• Tullio De Mauro, “Il Paese cresce se studiano tutti”, Corriere della Sera, 17 maggio 2011
Elio Nicolosi