La crisi della scuola media al microscopio
È molto importante che “Education”, attraverso una serie di autorevoli interventi, abbia dedicato una particolare attenzione alla crisi della scuola media. Speriamo che il messaggio sia raccolto e che il tema diventi una delle priorità della politica scolastica. Non sarà semplice, perché questa ipotesi diventerà realistica soltanto se, dal mondo della scuola e dai territori, emergerà una forte domanda in questa direzione. Domanda che a oggi, purtroppo, non c’è.
La crisi è in chiaroscuro: il chiaro è la selezione esplicita; lo scuro è la situazione diffusa. Un malessere profondo da consumare in tre anni e poi da passare altrove, nel reticolo dei tanti indirizzi di una scuola secondaria superiore che ammortizza, solo in apparenza, l’eredità nella scomposizione classista dei ragazzi in entrata: i migliori ai licei e poi, via via, fino agli istituti professionali. E poiché questo processo è il riflesso delle situazioni reali, ciascuno trova, nelle proprie storie individuali, la conferma di quegli esiti. Ed è proprio questo il dramma.
Non gli squilibri e le diseguaglianze in ingresso ma la loro registrazione, talvolta esasperazione, verso il futuro. Un esito che molto, molto difficilmente, potrà essere ribaltato nella scuola secondaria superiore. Anche le speranze suscitate dall’attivazione degli istituti comprensivi sono andate in gran parte deluse. “Separati in casa”, ha affermato Luigi Berlinguer, e tutti sappiamo quanto sia vero salvo le rare, seppur significative, eccezioni.
Ma il fenomeno è più grave. Sono tra coloro che molto hanno sperato che in quel processo di integrazione, difficile e controverso per le ragioni che sono già state richiamate in diversi interventi, la scuola elementare avrebbe finito per contaminare positivamente la scuola media, mettendo in discussione una serie di fattori: la frammentazione disciplinare, la scarsa sensibilità pedagogica, l’individualismo dei docenti e un curricolo oramai sfasato rispetto al mutamento sociale e antropologico dei ragazzi che frequentano la scuola media.
La contaminazione, è vero, c’è stata, ma al contrario. È stata la scuola elementare a venir toccata da uno strisciante processo di secondarizzazione, agevolato dalla politica dei tagli della Gelmini che, introducendo l’aberrazione del “maestro a ore”, ha ulteriormente favorito frammentazione e disciplinarismo. I continui interventi sull’esame di terza media hanno, infine, messo il timbro a questo processo di deterioramento, di cui purtroppo si iniziano a cogliere i segnali anche dalla scuola elementare. Su questo versante, un rientro mirato sui punti forti della riforma della scuola elementare del ‘90 sarebbe utile, anche senza tanti interventi legislativi.
La crisi della scuola media ha riaperto il dibattito di berlingueriana memoria soprattutto da parte di chi, come il sottoscritto, ha creduto nell’ipotesi di un ciclo unitario di base. Questa riflessione sul modello è importante, ma ha due limiti: il primo è che richiede tempi lunghi per i conseguenti interventi legislativi, mentre avremmo bisogno ora di interventi veloci; il secondo, è che quel progetto non poteva considerare ciò che negli anni immediatamente successivi sarebbe successo: il mutamento profondo dei ragazzi che transitano nella scuola media. È proprio la sfasatura profonda tra i caratteri di queste generazioni e il curricolo/organizzazione del lavoro/didattica dell’attuale scuola media, il punto di crisi.
Guardiamolo questo punto di crisi. La scuola media vive di un modello prevalente di 29 ore settimanali (più 1 di approfondimento); talvolta sono attivati tempi potenziati (29 ore più 4 ore di laboratori interclasse) oppure tempi prolungati (29 ore più 4 ore di laboratori interclasse, più 6 ore con tre rientri pomeridiani). Come si vede, il tempo scuola non appare inadeguato, fermo restando le variazioni, per nulla insignificanti, dei diversi modelli organizzativi attivati in base ai servizi offerti dagli enti locali e all’organico assegnato.
La contraddizione più acuta sta a mio parere “dentro” questi modelli, nel momento in cui si trasformano in orari settimanali. ”Orario (dei docenti)”: parola magica, quasi onirica, oggetto di divertenti siparietti cinematografici ma ignorata dalle analisi sul funzionamento della scuola. Una vera sofferenza per le commissioni che lavorano sul problema e per i presidi; in ogni caso, un equilibrio delicatissimo tra esigenze individuali indescrivibili (e impensabili in qualsiasi altro contesto di lavoro pubblico o privato), che una volta raggiunto diviene immodificabile. E allora il monte orario annuale flessibile, aperto dall’autonomia? Una chimera che lascia solo a qualche eccezione l’esperienza di moduli plurisettimanali pensati in funzione di un modello pedagogico.
Andiamo oltre: l’orario giornaliero, la vera fotografia del problema.
Terminata la quinta elementare, l’undicenne incontra in un sol colpo nove discipline, con nove insegnanti. Eccola la frattura con la scuola elementare; ecco l’assurdità di un modello che presuppone, da parte dell’alunno, capacità e abilità psicologiche possibili, con un buon allenamento, solo dal triennio delle superiori. Noi docenti presupponiamo che a 11 anni il ragazzino sia capace di relazionarsi con nove diverse personalità, stili di comunicazione e linguaggi settoriali, esigenze personali, scelte metodologiche e didattiche diverse. È da qui che l’asse della centralità della persona si sposta a favore della centralità delle discipline. È qui che si smarrisce l’attenzione formativa, la sensibilità verso i grandi problemi della fase di crescita dei ragazzi.
Dei nove docenti poi, sei sono comparse fuggevoli. Infatti, solo il docente di lettere con 9 ore può ruotare su due classi, sempre che non venga spezzata la cattedra per ragioni organizzative; il docente di matematica, con 6 ore, ruota su tre classi; quello di inglese, con 3 ore, ruota su 6 classi. Tutti gli altri, con due ore settimanali, ruotano su 9 classi. Le criticità sono evidenti e investono tanto gli alunni quanto i docenti. Per i primi, si passa dal riesumato “maestro unico” della Gelmini a nove docenti; per i docenti, per la maggior parte almeno, si tratta di gestire fino a nove classi che, ovviamente, non è detto siano tutte nella stessa sede. Che rapporto educativo si può costruire? Quale personalizzazione è possibile? Come si fa a gestire la complessità sociale di classi con alunni tanto diversi (per provenienza sociale, etnica, culturale, ecc.), tanto numerosi (fino a 30/32 per classe) e in una fase delicatissima della loro crescita?
Accenno provocatoriamente alla proposta. Per un mutamento radicale del modello organizzativo serve un team di quattro/cinque (non di più) docenti impegnati su due classi; per le altre ore, e discipline, le attività dovrebbero essere organizzate per gruppi interclasse, con possibilità di scelte opzionali per i ragazzi. Adesso, si discuta pure quali debbano essere quelle 4/5 discipline e come si possano organizzare le attività laboratoriali: in fondo, la sfida dell’autonomia è proprio questa.
Dario Missaglia