Prevenire la dispersione scolastica: il valore dei primi anni di scolarità
Secondo gli ultimi dati dello studio Censis la scuola non funziona più come “ascensore sociale”. Una volta si studiava per migliorare la propria posizione, oggi il sistema educativo non garantisce più opportunità occupazionali e la scuola viene percepita come inutile. Calano le immatricolazioni all’università (-3,3%) e anche tra gli iscritti ai corsi universitari emergono segni di stanchezza e disaffezione. Tra il primo e il secondo anno lasciano gli studi oltre il 15% degli iscritti alle lauree triennali e il 10% degli iscritti alle lauree a ciclo unico. Si laurea “nei tempi” solo 1 studente su 4. Il paragone con i corrispondenti dati dei Paesi Ocse è drammatico.
Ma l’abbandono scolastico è pesante anche tra i ragazzi dei cicli d’istruzione inferiori. Tra le medie e le superiori ad abbandonare gli studi sono soprattutto i ragazzi provenienti da famiglie svantaggiate. Tra i figli dei laureati è un fenomeno marginale (riguarda solo il 2,9%), ma sale al 7,8% tra i figli dei diplomati e interessa quasi uno studente su tre (27,7%) se i genitori hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo. Se questo è il trend, c’è il serio rischio di innescare una spirale negativa e ingravescente anche per il futuro.
Un altro tratto significativo è la prevalenza del fenomeno nelle aree del Sud, dove la sfiducia nel sistema scolastico parte già dalla scuola dell’infanzia. A Palermo rimane inevasa per il 70% la richiesta di servizi per l’infanzia (nidi e scuole materne); a Roma non va tanto meglio. Sul versante opposto Torino, che soddisfa interamente le richieste.
Certamente la dispersione scolastica è un fenomeno vasto e complesso che solo parzialmente gli indicatori e le rilevazioni statistiche rappresentano. Chiama in causa la dimensione psico-sociale degli allievi, l’organizzazione della didattica e le strategie educative, ma anche le politiche scolastiche nazionali e le dinamiche del territorio.
Oggi si riconosce il valore dell’inclusività per combattere gli effetti delle disparità socio-economiche, ma occorre coniugarla con pratiche educative che non esaltino individualismo e competizione, bandendo quella prospettiva pseudo-meritocratica che è indifferente ai destini degli studenti con disagio. E occorre cominciare presto, fin dalle prime fasi della scolarità, a costruire per la scuola un nuovo orizzonte di senso. La nota n. 14/2014 del Miur lo riconosce con chiarezza, quando sottolinea “… l’importanza del coinvolgimento degli alunni della scuola dell’infanzia poiché le cause della dispersione e dei successivi abbandoni (…) hanno le loro radici proprio nei primi anni della scolarizzazione, ove spesso si determina il futuro di ogni alunno in termini di successo o di insuccesso formativo”.
Soprattutto il quinquennio della scuola primaria appare determinante nel costruire le solide basi della formazione degli studenti, in termini di autostima e “resilienza” – ovvero capacità di far fronte alle avversità mantenendo fiducia in se stessi – e nel creare una rete di relazioni sociali che supportino la crescita individuale. Nelle prime fasi di scolarità si può davvero operare un precoce decondizionamento dei comportamenti a rischio e prevenire efficacemente l’abbandono scolastico. E’ dimostrato (basti richiamare le ricerche di Rosenthal e Jacobson) che in buona misura la chance di successo degli allievi in difficoltà deriva dalle competenze dei docenti, dalle loro capacità di stimolarne la curiosità e gli interessi cognitivi, individualizzare i percorsi di apprendimento, supportarne l’autoefficacia, intervenire sulle insicurezze affettive proponendosi come modello di identificazione.
La scuola a Tempo Pieno, nata proprio per offrire un’opportunità formativa completa e qualificata ai bambini delle città che si andavano allora industrializzando, rappresenta un modello di successo educativo da rivendicare con forza contro tutte le recenti distorsioni che lo hanno snaturato ed impoverito, a seguito di un sanguinoso taglio di risorse. Un modello organizzativo compatto ed integrato, luogo educativo protetto, con percorsi didattici flessibili ed aperti, linguaggi polivalenti e approcci creativi…: il valore del modello del Tempo Pieno alla scuola primaria (e del Tempo Prolungato alla media), indica nell’apertura prolungata della scuola un importante strumento di prevenzione della dispersione scolastica, soprattutto nei quartieri e nelle periferie degradate delle città, prive di spazi e di opportunità culturali. Ma sarebbe un errore pensare che questo sia l’elemento prioritario: occorre soprattutto riqualificare il cosiddetto “curricolo antimeridiano”. Non si può contrastare la dispersione se non si superano le pratiche di insegnamento nozionistiche ed astratte, che possono essere positivamente accolte solo da allievi motivati e supportati dalle famiglie, se non si superano modelli e procedure di valutazione sommativa degli studenti che spesso utilizzano il voto numerico come strumento competitivo e gerarchizzante.
Affrontare con serietà il preoccupante fenomeno dell’abbandono scolastico non significa realizzare improbabili progetti pilota o modelli più o meno sperimentali, ma indurre la generalità dei docenti, a partire soprattutto dalla scuola primaria, ad abbandonare le inefficaci ritualità dell’insegnamento trasmissivo e a ricercare quelle strategie che si basano sulle motivazioni, sugli interessi e sugli stili di apprendimento degli allievi con i quali si rapportano.
Rischia di essere fuorviante o illusorio anche sperare nelle “magnifiche sorti e progressive” delle nuove tecnologie applicate alla didattica. Le buone pratiche, pur valorizzando opportunamente i supporti tecnologici, capaci di ottimizzare e motivare l’apprendimento dei nativi digitali, più opportunamente devono richiamarsi alla lezione della pedagogia, che ha dimostrato come le metodologie non siano tutte equivalenti.
Learning by doing e peer education, note ora con definizione anglofona, richiamano nomi di casa nostra, come Maria Montessori, Danilo Dolci, Lorenzo Milani, capaci di istruire con successo “tenendo dentro” tutti, compresi quei bambini e ragazzi svantaggiati che oggi didattiche competitive, voti e test inducono spesso all’abbandono. Certo, la loro lezione potrebbe essere rivitalizzata dalle opportunità offerte dal consapevole impiego dei nuovi linguaggi e dei codici digitali…
Che fare dunque per prevenire fin dalle prime fasi della scolarità la dispersione scolastica? Questi alcuni punti di interesse:
a) Offrire agli alunni modelli di identificazione solidi, stabili e sicuri. Gli insegnanti devono poter essere “figure di attaccamento” capaci di costruire un punto di riferimento affettivo per i bambini, che permetta loro di “esplorare il mondo” con sicurezza e fiducia;
b) Costruire negli alunni solide competenze di base, quelle “competenze di cittadinanza” capaci di dare a ciascuno gli strumenti fondamentali per comprendere la realtà ed esserne protagonisti;
c) Accanto agli alfabeti della conoscenza, introdurre gli alunni agli alfabeti emotivi, quelli dell’empatia, dell’autoconsapevolezza e del rispecchiamento sociale;
d) Superare metodologie meramente trasmissive a favore di approcci cooperativi, attivi, laboratoriali, metacognitivi, che tengano conto delle diverse caratteristiche degli alunni e valorizzino le diversità piuttosto che mirare all’omologazione a modelli “standard”;
e) Accettare che a percorsi didattici individualizzati e personalizzati possa corrispondere una valutazione altrettanto personalizzata, formativa piuttosto che sommativa, che consideri i punti di partenza e i progressi fatti.
Certo, vanno prioritariamente rimotivati i docenti, formati e supportati. Va ridotto il numero degli alunni per classe, potenziate strutture e dotazioni, incrementati gli organici. Ma la nostra scuola, soprattutto la primaria, ha ancora le energie e le competenze per raccogliere la sfida e vincerla.
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Immagine in testata tratta da Siracusa oggi
Laura Barbirato