Un appunto sulla scuola
Si è parlato di due funzioni importanti della scuola: la trasmissione del sapere e la creazione di legami sociali. È vero, e la high school americana è un eccellente esempio della seconda funzione a scapito della prima. Altri hanno giustamente aggiunto che oltre alla trasmissione c’è anche la produzione del sapere, soprattutto per l’università, ma non solo; e condivido. C’è però un’altra funzione della scuola ed è quella della creazione dell’eguaglianza: che non ha nulla a che vedere con il cosiddetto “egualitarismo” nei voti, ma significa semplicemente che a scuola vanno tutti, poveri e ricchi, locali o immigrati, su un piano di parità e che si dovrebbe assolutamente evitare che ci fossero scuole diverse. La scuola è il luogo dove si forma il cittadino, e dove altrimenti? E dove si forma quello che in Francia si chiama l’esprit républicain, di cui proprio grazie alle carenze della scuola in Italia si sente molto la mancanza. Abbiamo un eccesso di Patria, che è pura retorica, e una carenza di Repubblica che è il riconoscimento della condizione paritaria di cittadino. Avevo già detto, e scritto, queste righe quando sono usciti due articoli importanti sull’argomento, quello di Gustavo Zagrebelsky “Senza uguaglianza la democrazia è un regime”, Repubblica, 26 novembre 2008 e quello di Nadia Urbinati “Il merito e l’uguaglianza”, Repubblica, 27 Novembre 2008 che mi confortano sul punto.
Tuttavia i problemi della scuola italiana sono molto più profondi e oserei dire strutturali nel senso che non dipendono più soltanto dalla volontà di questo o quel ministro, ma da un impianto, che come altri aspetti della vita italiana che non è stato mai veramente toccato nel timore che la costruzione sia così fragile, anche fisicamente, come si è visto, che il tentativo di toccarla può tradursi in un crollo.
Penso sia necessario cercare di contribuire a spostare l’attenzione dalla nostalgia all’analisi, partendo dalla realistica constatazione che la scuola di oggi non potrà mai essere capita se continuiamo a guardare indietro alle rondini (e talvolta anche gli Spitfires della RAF) che sfrecciavano davanti alle finestre delle aule delle elementari, frequentate dalla mia generazione. Troppa acqua è passata sotto (e sopra) i ponti e nella maggior parte dei casi dalle finestre delle scuole italiane le rondini non si vedono proprio e qualche volta quelli che volano sono solo i bambini.
Propongo di considerare invece attentamente alcuni dati di fatto che contribuiscono congiuntamente ai problemi attuali e da cui non si può prescindere.
Il primo è il rapporto tra le conoscenze trasmesse a scuola e quelle apprese fuori. La scuola pubblica è nata come istituzione quasi monopolistica del sapere in una società “information poor”. Oggi la situazione è rovesciata: la scuola opera in una società “information dense” e le conoscenze che dispensa sono spesso arretrate rispetto a quelle che gli studenti e le loro famiglie ricevono in grande quantità da altre fonti. Ciò ha conseguenze devastanti su tutto il sistema. Per dirne una di rilevanza attualissima: l’autorità degli insegnanti.
Nella stragrande maggioranza delle scuole elementari d’antan le scolaresche non erano meno birichine di quelle di cui ci si lamenta oggi, ma se volava qualche autorevole sberla, il delinquentello sapeva che a casa avrebbe ricevuto una dose aggiuntiva. Non rimpiango: segno a cronaca. Oggi la scuola sembra sempre arrancare dietro conoscenze che vengono da fonti spesso assai più competenti e abili nella presentazione del migliore dei docenti. Le famiglie si convincono facilmente di saperne di più, loro e la rispettiva prole, del povero insegnante. Non è così; anzi, il più delle volte, l’informazione mediatica produce solo “false beginners”, la condizione, ben nota agli insegnanti di lingue per adulti, di coloro che, masticando, per esempio, qualcosa di inglese, credono di saperlo già e hanno quindi maggiori difficoltà ad apprenderlo correttamente di chi è un vero principiante. Vale per tutte le materie, gli insegnanti fanno fatica doppia a gratificazione dimezzata, non sorprende perciò l’elevatissimo tasso di “burn out” (docenti, “scoppiati”) tra i professori – e uso i termini inglesi non per vezzo, ma per segnalare che si tratta di problemi generali e ben noti agli studiosi, che hanno poco a che vedere con i fannulloni o il lassismo di casa nostra.
Due. La scuola tradizionale aveva il compito di formare una coscienza nazionale tramite la storia patria. Oggi questa funzione è difficilmente praticabile: ci mettiamo a insegnare ai giovani che Francesi, Inglesi, Tedeschi o altro sono gli odiati nemici? In più la scuola italiana ha il problema aggiuntivo che dal Risorgimento in poi, a dire il meno, la unità nazionale è contestata e manca così un riferimento unitario, per trovare il quale si deve risalire fino ai romani antichi.
Tre. Lo smisurato ampliamento delle conoscenze. Ai tempi della scuola del grembiulino e del pennino, le storie dei popoli che, con una certa affettazione, gli intellettuali chiamano “altri”, non si studiavano. Si studiava, male, la storia italiana, in quasi totale isolamento. Dell’Europa, anche dopo l’eliminazione dei testi fascisti, lo scolaro sapeva poco. Oggi la cultura si è aperta al mondo e alle tante conoscenze che compongono la cultura contemporanea, ma questa estensione delle conoscenze si è subito ripercossa sulle dimensioni dei testi e degli zainetti. La nostra politica ha immediatamente trovato la soluzione del cretino di genio: le storie “altre” sono state eliminate e i libri sono ritornati smilzi. Ma sui banchi di scuola sono arrivati, in carne e ossa, gli eredi di queste storie e la politica italiana, ora, non trova di meglio che metterli nell’angolo, sperando forse che con il tempo scompaiano.
Non parliamo infine delle tecnologie digitali in cui i giovani sono immersi a ogni ora del giorno, ma che sono costretti ad abbandonare alle porte della scuola, la quale appare così ai loro occhi ancor più polverosa, povera e arretrata. Ci avevano promesso “Inglese, Internet e Intelligenza”. Qualcuno ha sicuramente venduto un po’ di macchine, che hanno trovato scarsa accoglienza, come prova una ricerca del centro QUA_SI dell’università di Milano-Bicocca (presentata al Festival Tech It Easy, 5-7 novembre) che documenta le resistenze delle insegnanti nei confronti delle tecnologie.
Guido Martinotti