Si può fare scuola?
Una scuola pubblica, una scuola non statale, una scuola paritaria per la Costituzione e la legge italiana; per tout le monde, una scuola “privata”: ecco dove faccio il preside.
Vengo da quaranta anni di insegnamento in un Liceo statale, da anni di Presidenza di un IRRE (Istituto di Ricerca Regionale), anni di presidenza di un’associazione nazionale insegnanti, convegni , discussioni, riviste da fondare, esperienze bellissime e appassionanti.
Poi la proposta di iniziare un Liceo Classico e scientifico, da capo, con la facoltà di impostare la didattica, di scegliere gli insegnanti: cosa desiderare di meglio? Ora non ci sono scuse, ora si può! Recluto gli insegnanti, tutti giovanissimi, tutti preparati e pieni di passione per il lavoro che li attende e comincia l’avventura.
Ma c’è un nemico: lo “schema”.
Lo schema culturale che la scuola italiana tutta si porta dietro da sempre, che si perpetua in modo tale che i miei giovani insegnanti hanno la stessa impostazione culturale, la stessa modalità che avevano i miei insegnanti, contro i quali abbiamo “combattuto” nel ‘68.
Sembra invincibile, lo schema: la lezione frontale, i compiti e le interrogazioni, la “severità” vera o supposta come necessaria, il doverismo kantiano del “devi perché devi”, il moralismo delle regole, la burocrazia cartacea (aggiornata online), alla faccia di ogni stagione pedagogica, costruttivismo versus realismo etc.
Lo schema che, nonostante l’autonomia permetta variazioni, assegna l’orario scolastico, il numero delle ore di cattedra per decreto, il numero dei giorni e delle festività, il tutto in una liturgia tanto rigida quanto poco sensata.
Questa è la situazione e non c’è “destra” o “sinistra” che tenga, una tale struttura pare universale.
Bene: allora, per non partire da uno schema precostituito che ci precede, ripartiamo da noi.
Proprio da noi che siamo di fronte ai ragazzi, questi insegnanti e questi ragazzi; se così si può fare, usiamo pure gli schemi soliti perché, come icasticamente notava Einstein, “è più facile spaccare un atomo che un pregiudizio”, ma rendiamoci conto di cosa stiamo facendo, degli schemi appunto che stiamo usando, e poniamo, sinteticamente e analiticamente, il lavoro da fare.
Prima sinteticamente: voglio, attraverso la disciplina che insegno, introdurre il ragazzo alla realtà di cui la disciplina è segno (infatti in-segno). Sì, pongo come presupposto ciò che la filosofia contemporanea non concede facilmente: la realtà c’è, e non è solo un insieme di significati che insieme “negoziamo”, è proprio la “realtà” quella che descriviamo e interpretiamo, e nella realtà facciamo entrare i ragazzi mediante l‘ipotesi che formuliamo.
Poi analiticamente: prendiamo un pezzo del nostro tempo lavoro, un pezzo limitato, poniamo 10 ore, analizziamolo da cima a fondo, cosa, come, quanto insegno; scomponiamo l’atto dell’insegnare e poi riflettiamo sugli esiti. Tutto è un tentativo e nulla è meccanico nell’educazione: lo stesso identico atto compiuto da insegnanti diversi, persino spostare il cursore del PC, può produrre esiti totalmente diversi.
Allora verifichiamo, nella tua ora di 60 minuti, quanto parli tu, quanto rielaborano i ragazzi, come valuti te stesso. Basta chiedere ai ragazzi non “cosa tu hai detto” (qui basta il famoso studente pappagallo), ma che cosa hanno capito loro di quello che tu hai detto.
Così puoi valutare il tuo atto della comunicazione, intervenire a correggerti. Semplice; difficile se a compiere questa operazione è un intero collegio docenti.
Certamente c’è un gusto nella consapevolezza di sé, un fiorire di iniziative e di verifiche tra gli studenti, una valutazione positiva dei genitori che capiscono che la vita scolastica è “ragionata” e perciò ragionevole.
Dentro questo percorso è implicito l’uso dei nuovi strumenti di comunicazione: strumenti, appunto, per uno scopo che non coincide con lo strumento. Nessuno può dire che, in determinate circostanze, sia meglio un tablet di un grammofono a manovella: solo chi fa scuola.
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Giuseppe Meroni