Il personale della scuola tra “performance” e “competence”
In altro intervento su Education 2.0, “Sulla valutazione del personale della scuola”, ho sottolineato un criterio fondamentale della valutazione del personale. Ciò che si valuta non sono le “persone” (le loro caratteristiche professionali, culturali, caratteriali) ma “le persone in contesto organizzativo”. Ogni sensata e condivisa valutazione rapporta le caratteristiche del “lavoratore” con l’organizzazione in cui opera. Tale istanza fondamentale ha anche un valore di “salvaguardia”. Infatti ogni “osservatore/valutatore” avvertito sa che nel suo lavoro sono in agguato tutti i rischi di “deformazione” nel rapporto tra osservato e osservatore che influiscono sulla “elaborazione del giudizio” (effetti alone, pregiudizi, implicite e ingenue teorie della personalità ecc.).
“Situare” la valutazione rapportandola all’organizzazione concreta che determina il contesto operativo di una persona aiuta a mantenere sotto controllo proprio le deformazioni sempre in agguato nell’osservazione. Ma cosa valutare?
La figura seguente traccia una mappa sufficientemente completa di ciò che può essere oggetto della valutazione in contesto lavorativo/organizzativo. Per la sua esplorazione analitica rimando a pubblicazione specifica (De Anna, F., “Valutare i dirigenti della scuola”, Spaggiari Editore, Parma 2006, pagg. 140 e segg.); qui, anche in relazione al prezioso dibattito che si sviluppa su Education 2.0 sul tema, mi limito a una lettura essenziale, dal basso verso l’alto. La mappa può essere esplorata per livelli e stratificazioni sovrapposte che corrispondono a diverse modalità, protocolli, strumenti e finalità, nonché attori, della valutazione in contesto organizzativo. Alla base si trova la tipologia concettualmente più semplice (non necessariamente la più semplice per strumentazione e protocolli): quella di misurare il rapporto tra obiettivi assegnati al singolo, nell’ambito di quelli complessivi dell’organizzazione, e i risultati raggiunti. Alla semplicità concettuale corrisponde una non trascurabile complessità circa gli strumenti e i protocolli.
Fig. 1 La mappa della valutazione
Per esempio: come classificare gli obiettivi (innovazione, manutenzione/mantenimento, miglioramento ecc.); quale “peso” assegnare a ciascuno; come misurare i risultati; come “discriminare” l’apporto del singolo sul risultato complessivo; come declinare nel tempo sia obiettivi che risultati ecc.
Nel caso della scuola una complessità ulteriore è costituita dal fatto che la singola organizzazione che rappresenta il contesto operativo di riferimento per la valutazione (la specifica e “situata” scuola autonoma) è a sua volta appartenente a un “sistema” che ha e dichiara suoi obiettivi generali, a loro volta commisurati con le sue finalità istituzionali. Ma in ogni caso tale complessità è dominabile con strumenti adeguati (ovviamente sempre perfettibili e sempre segnati da “incertezze” come per ogni strumento di misura). L’esito della valutazione è semplicemente esprimibile attraverso un valore di rapporto tra obiettivi e risultati. I limiti di tale (semplice) approccio sono evidenti. (Del resto è evidente che la valutazione vera e propria qui confina con il controllo, che è cosa diversa). Mi limito a osservare, rispetto a tali lmiti, che una organizzazione vive nel tempo e nello spazio, oltre che nella dimensione essenzialmente collettiva. I risultati devono poter essere ripetuti, consolidati, devono produrre effetti non solo esterni, ma anche interni all’organizzazione, rafforzandola e migliorandola. Gli obiettivi devono essere espliciti, dichiarati, compatibili, condivisi ecc.
Ma, livello di esplorazione successivo, i risultati sono frutto di “comportamenti”. Se volessimo semplificare potremmo dire che le “prestazioni” sono la coniugazione di comportamenti+risultati. Se devo passare da una stanza all’altra posso varcare una porta o abbattere una parete: il risultato è il medesimo, ma… E se voglio abbattere un muro posso usare una mazza e uno scalpello oppure un martello pneumatico: il risultato è il medesimo, ma…
Valutare i comportamenti è operazione concettualmente e operativamente più complessa della precedente. Sempre naturalmente osservando la precauzione che si tratta di valutare i “comportamenti organizzativi”, cioè quelli previsti, tracciati e compatibili con le regole esplicite e implicite dell’organizzazione. (Caso diverso è il disciplinare).
In un precedente contributo, citato in apertura, mettevo in luce che le diverse organizzazioni si possono classificare in relazione al livello di “prescrittività” che assumono i comportamenti previsti, consolidandosi in procedure standardizzate e istituzionalizzate. Organizzazioni caratterizzate da forte proceduralità come la Pubblica Amministrazione (e la scuola?) sono diverse da organizzazioni caratterizzate per flessibilità procedurale finalizzata agli “obiettivi” (Management By Objectives). Spesso, nella Pubblica Amministrazione, la “procedura” è tutto, per quanto ci si mascheri con categorie che afferiscono alla “logica per obiettivi”… Modalità, strumenti e protocolli di valutazione devono perciò innanzi tutto essere coerenti con la tipologia organizzativa, sempre che si vogliano produrre effetti virtuosi e non viziati di opportunismo, dalla valutazione stessa. Rimane il fatto che i comportamenti organizzativi sono comunque “osservabili”, sia direttamente che indirettamente. Un buon valutatore, seguendo una traccia e un protocollo di osservazione, potrà assistere a una lezione, a una riunione di un organo collegiale, a una assemblea dei genitori; ma potrà anche osservare “comportamenti trasferiti” in oggetti documentali (circolari, comunicazioni, appunti, verbali, stesura di progetti…) e valutarne pertinenza, chiarezza, completezza ecc.
Costruire griglie di osservazione esaurienti e collegare a esse scale di valutazione è operazione concettualmente più complessa della precedente, ma non impossibile, proprio perché comunque i comportamenti sono osservabili. Nella Mappa vi è traccia della complessità da affrontare per costruire tali strumenti e renderli significativi: i comportamenti organizzativi messi in campo da una persona sono infatti influenzati da diverse variabili, sottostanti al comportamento osservabile. Tra esse la cultura organizzativa disponibile e scambiata collettivamente, le motivazioni personali e professionali del singolo, i “modelli professionali” stratificati sul “profilo di ruolo” ecc. Gli strumenti di valutazione devono poter commisurare i comportamenti con i loro effetti e questi ultimi con i risultati (le prestazioni, o come preferisce qualche Ministro “la performance”).
Il livello successivo di analisi schiude un campo di complessità sia concettuale che operativa ancora maggiore: si passa dai comportamenti (performance) alle “Competenze” (altra parola la cui abbondante ripetizione sembra essere proporzionale alla nebulosità/multiformità dei significati a essa assegnati). Nella mappa, l’area delle competenze è descritta come la sintesi tra conoscenze, capacità, esperienze (si vedano le definizioni europee ma anche quelle in uso nella valutazione di impresa); una sintesi che si realizza sul substrato psico-antropologico del soggetto (la competenza è un attributo del soggetto: c’è la persona competente, non la competenza in astratto). Tale sintesi, specie in un soggetto adulto in contesto lavorativo, ha un (limitato) livello di plasticità. Come indicato in figura le conoscenze sono influenzate attraverso la formazione (la formazione adulta ha però limiti e modalità note). Le capacità e abilità dipendono da un fattore difficilmente plasmabile in età adulta (le attitudini) rafforzandosi con l’esercizio (l’esperienza ripetuta). So che il termine attitudine provoca discussioni (caratteri innati? geneticamente determinati? stratificazioni relative apprendimenti o deprivazioni precoci?). Non c’è risposta univoca: l’“orecchio assoluto” (la capacità “naturale” di discriminare tra due semitoni) è innata; saper correre i 100 metri in 10” è frutto dell’allenamento ma anche di caratteristiche strutturali della persona. Si può discutere sulle origini, ma, soprattutto in riferimento ad adulti, si può ragionevolmente sostenere che il termine si riferisca alla “strutturale” diversità del soggetto, non, o non più sostanzialmente modificabile né con l’apprendimento, né con l’esperienza. Ciò non significa disegnare un destino: per mantenere l’esempio citato non è affatto detto che l’orecchio assoluto determini il soggetto a fare il musicista, e neppure che tutti i musicisti abbiano l’orecchio assoluto. Semmai, e la cosa riguarda proprio la formazione, occorrerebbe, nella esplorazione delle competenze, almeno “accorgersi” di tale attitudine. Spesso le persone che la posseggono non lo sanno.
Non tutto si può apprendere, ma soprattutto non é affatto automatico l’esito personale di tale apprendimento. Forse (non ne sono affatto sicuro) si può apprendere a fare il leader (vedi tante suggestioni rivolte ai Dirigenti Scolastici). Ma che tipo di leader si diventi con tale apprendimento non è affatto scontato. E ciò vale, mutatis mutandis, anche per i docenti.
Gli strumenti e i protocolli di osservazione e descrizione delle competenze sono perciò assai complessi. Le competenze non sono “osservabili” come tali, ma si esprimono attraverso comportamenti. Descriverle e apprezzarle richiede però l’uso di strumenti, accanto a quelli citati per i comportamenti, di analisi psicodiagnostica. Declaratorie, tassonomie di competenze ovviamente sono utili e devono essere formalizzate; ma l’accertamento delle competenze ha una inevitabile dimensione “personalizzata” e, soprattutto, aperta alle “potenzialità”, a volte inespresse nel ruolo organizzativo effettivamente ricoperto, ma rilevanti per la oculata gestione del personale.
Ricordo en passant la distinzione proposta da Chomsky in campo linguistico: “performance” è tutto ciò che si dice e scrive in una lingua; “competence” è tutto ciò che si “può” dire e scrivere. L’uso di strumentazione psicodiagnostica non ha grande udienza nella scuola italiana, e costituisce anche una “variabile limitante” nel definire un possibile profilo del “valutatore”. Ma se si superano i pregiudizi culturali sull’uso di tali strumenti, occorre riconoscere che, nel campo della ricerca relativa, ve ne sono alcuni di elevato valore predittivo, il cui uso diventa indispensabile nella “valutazione” approfondita in contesto lavorativo (e la cosa potrebbe essere estesa ai tanti cultori della valutazione delle competenze nei processi di apprendimento, sempre che non si operino delle opportunistiche cosmesi, chiamando “competenze” gli apprendimenti o le “perfomances”). Per esempio test come il Big Five e applicazioni relative (di estrazione junghiana) hanno dimostrato sul campo, se correttamente applicati, un alto valore predittivo sulle caratteristiche del personale impegnato nell’organizzazione.
La complessità dell’esplorazione della parte alta della mappa proposta è evidente: la valutazione che si esprime a tale livello (le competenze) è esito di un complesso percorso inferenziale che a partire dai dati rilevabili e misurabili (obiettivi/risultati, comportamenti e performances) perviene a una “elaborazione del giudizio”, che potrà essere espressa con qualunque scala, ma dovrà essere esplicitamente collegata a tale percorso. Occorrono strumenti adeguati, ma soprattutto “pensieri adeguati”. Effetto di tale complessità è anche quello che tale valutazione viene esercitata, nelle esperienze più avanzate, attraverso moduli specifici di attività che coinvolgono i valutati con l’osservazione di equipe di valutatori. Per esempio il modello “Assessment Center”, nei quali il personale in valutazione viene coinvolto con una pluralità di strumenti come test, esercizi, simulazioni, role play, produzione di comunicazione ecc. Agli assessor tocca il compito di rielaborare e connettere le informazioni desunte da tale pluralità di “comportamenti” realizzati in un contesto controllato, e di pervenire alla formulazione del giudizio. (Rimando per approfondimenti, a De Anna, F., “Valutare i dirigenti della scuola”, Spaggiari Editore, Parma 2006, pagg. 140 e segg.). Ovviamente attività come quelle di Assesment Center sono complesse e costose. Ma rifaccio qui la proposta a suo tempo già avanzata al “superiore Ministero”: perché non dedicare a tali attività almeno una parte di due momenti istituzionalmente codificati nel nostro ordinamento, come l’anno di prova e formazione, oppure, per i Dirigenti, i moduli di formazione che concludono i concorsi?
L’alternativa, deprimente, è altrimenti quella di continuare a cimentarsi in definizioni sempre più analitiche e innovative (?) del “profilo professionale” sia di docenti che dirigenti, quasi che il compito fosse quello di descrivere un “idealtipo” e poi di confrontare la realtà effettuale con esso. Ma questo non è “valutazione”, e difatti per quanto interessanti, ripetuti nel tempo e preziosi siano gli esercizi definitori precedenti (molti e interessanti su Education 2.0), il sistema di valutazione del personale della scuola è (ancora) da costruirsi.
Franco De Anna