Un orizzonte più alto
È cronaca giornaliera nelle scuole la evidente lacerazione che si è prodotta tra genitori e figli. La percezione è quella di una generazione di adulti che si ritrae dalle proprie responsabilità educative, lasciando alla scuola una delega in bianco sulla formazione dei propri figli. Non sempre (anzi, per la verità, raramente) la scuola raccoglie questa delega ingombrante e difficile, ma quando lo fa si trova esposta a reazioni durissime di chiusura, di difesa a oltranza, di attacco (in taluni casi di vera e propria aggressione) nei confronti di quei docenti che hanno voluto camminare sul terreno minato.
Inutile dire che queste dinamiche siano a loro volta destinate ad alimentare una ritirata dei docenti da questo terreno e a sospingerli sempre più in una dimensione di presunta tecnica professionale: “Il mio mestiere è insegnare questa disciplina, e basta”. Questo abbandono non segna solo le famiglie ma anche tutte quelle agenzie che si rivolgevano ai giovani (associazioni laiche e religiose, parrocchie, società ricreative e sportive) e rappresentavano un fenomeno molto importante del welfare sociale del nostro Paese. Salvo piccole minoranze, il fenomeno è macroscopico: i giovani non li incontra più nessuno.
E ciò è talmente vero che oggi tutti questi soggetti inseguono la scuola per incontrare i giovani. Ogni giorno devo gestire, ora con consensi, rinvii, dinieghi, una moltitudine di richieste delle più svariate agenzie che chiedono di incontrare gli studenti a scuola, durante l’orario di attività perché non sono più in grado di arrivare ai giovani con i loro mezzi, i loro messaggi. La scuola, in altri termini, è oggi l’unico luogo in cui si possano incontrare i giovani.
Questo fatto mi sembra eclatante e meriterebbe indagini e riflessioni. Perché segna una nuova “centralità” educativa della scuola che forse non è ancora consapevolezza comune e di conseguenza non è colta nelle sue potenzialità.
L’insieme del fenomeno evidenzia intanto che siamo di fronte a una crisi profonda dei modelli educativi. Ed è questo un problema centrale che in questi anni non è stato colto. L’eccesso di ideologia intorno alla famiglia e il timore di invadere un campo altrui, hanno lasciato il problema ai margini. Si è preferito investire molto sul bullismo, che è un aspetto, il peggiore senz’altro, della crisi dei modelli educativi, ma che resta irrisolvibile senza affrontarlo per quello che è: con una politica attenta a ogni forma di sopruso e violenza verso l’altro ma anche con la ricostruzione di un ambiente educativo forte. Aver oscillato il pendolo solo sul primo corno del problema ne ha anche deformato il significato senza produrre altro sul secondo corno del problema. I giovani appaiono sempre di più un problema anziché un’opportunità.
Può la scuola affrontare questa sfida? Penso di sì, purché non si faccia schiacciare soltanto nella dimensione quotidiana, del tutto comprensibile, fatta di microconflittualità e tensione contro una politica scolastica che aggredisce le condizioni organizzative e finanziarie delle scuole. C’è bisogno di un orizzonte più alto senza il quale non si torna a parlare ai giovani, alle loro attese e alle loro speranze. Ma ce n’è bisogno anche per gli adulti che devono saper affrontare una situazione inedita, difficile, ma non necessariamente votata all’insuccesso e alla fuga.
Dario Missaglia