Iscrizioni alle scuole superiori per il 2019-2020: qualche considerazione – di Claudio Salone

Anche quest’anno si è confermata la tendenza, ormai consolidatasi quantomeno nell’ultimo quinquennio, di una netta prevalenza delle iscrizioni ai licei (oltre il 55%) rispetto ai tecnici (31%) e ai professionali (13%).

Prescindendo dalla suddivisione interna all’istruzione liceale, che registra un aumento delle iscrizioni al classico (6,8%) dopo un lungo periodo di declino e un riaffermarsi del primato del liceo scientifico (25%), il dato che colpisce è quello della persistente maggioranza dei ragazzi italiani e delle loro famiglie che scelgono la filiera lunga dell’istruzione, cioè a dire, poiché il segmento liceale non è di per sé terminale di un percorso  professionalizzante, quella che richiede di necessità la prosecuzione in ambito universitario.

Se accostiamo questo dato, che pure ha in sé un elemento di positività, all’altro piuttosto sconfortante della percentuale dei laureati italiani che emerge dal report di Education at Glance 2018, in cui l’Italia figura con appena il 4% di laureati triennali tra i 25 e i 64 anni (media OCSE 17%) e il 18,7% con laurea quinquennale (media OCSE 33%)[1], non possiamo non notare una stridente contraddizione con quanto prima osservato: con una licealità sempre più estesa, il raggiungimento di alte percentuali di iscritti all’università e di laureati dovrebbe essere una conseguenza naturale. Perché così non avviene?

Analizziamo qualche dato-cornice:

  • La filiera professionale secondaria ha in Italia percentuali molto più basse rispetto alla media OCSE ed è in continuo declino; Nel 2010, gettando le basi per Lisbona 2020, la Commissione Europea constatava che il 50% delle iscrizioni alle superiori in Europa era sugli indirizzi professionali. La differenza con la situazione italiana non potrebbe essere più evidente;
  • Il dato medio nazionale delle iscrizioni fa registrare una varianza molto ampia tra nord e sud; i licei sono ancora più scelti nel centro-sud (con punte del 68,6% nel Lazio), i tecnici di più nel centro-nord e soprattutto nel nord-est, dove appaiano i licei (nel Veneto 45,7% licei, 40% tecnici);
  • I NEET (giovani che non studiano e non lavorano) nel nostro Paese sono ancora troppi (26% rispetto al 14% della media europea, dati Eurostat 2017).

Adesso il quadro.

A me pare emerga innanzi tutto una estesa e profonda inefficacia delle strategie di orientamento. È evidente infatti che l’iscrizione ai licei è frutto, almeno in parte, di una scelta di carattere eteronomo: i licei sono ancora i preferiti non già per vocazione agli studi che impartiscono, ma perché garantiscono “un buon ambiente sociale” e conferiscono prestigio a chi li frequenta. I media peraltro contribuiscono fortemente a veicolare l’equazione scuola superiore = liceo (attendo ancora una fiction o un servizio giornalistico televisivo che si attestino all’uscita di un istituto tecnico o di un professionale).

L’esistenza in Italia di curricula senza opzionalità, che separano quindi anche fisicamente, collocandoli in edifici diversi, gli studenti di liceo da quelli dei tecnici e professionali, contribuisce non poco a rafforzare le ragioni eteronome di questa scelta.

A ciò corrisponde la mancanza di appeal dell’istruzione professionale che, pur nella varianza dei dati tra nord e sud, si è trasformata nel tempo in una scuola per drop-out. Essa cioè non accoglie studenti vocati, ma spesso studenti che vivono nella marginalità o che hanno difficoltà di socializzazione, in specie nelle aree periferiche urbane, come pure nelle zone rurali più isolate (vedi altresì la percentuale di iscritti di origine non italiana, di studenti con diverse abilità, di famiglie di livello socio-economico basso).

Questo cattivo orientamento, determinato da fattori altri rispetto a quelli vocazionali, determina due ulteriori dati negativi per l’Italia, quello dell’eccessiva percentuale di bocciature (Italia 3% nella scuola media e 7% nelle superiori – anche qui con una grossa varianza tra licei e istituti professionali – media OCSE 2 e 4% rispettivamente) e quello della dispersione scolastica, ancora al di sopra della media europea, pur se migliorata nell’ultimo decennio (14,5% contro l’11,2%).

Tornando alla contraddizione di cui si diceva all’inizio tra l’alto numero di studenti che sceglie la filiera lunga dell’istruzione e il numero dei laureati, una delle cause va ricercata proprio nella rigidità dell’intero sistema dell’istruzione e della formazione, le cui articolazioni sono sostanzialmente rimaste le stesse da 70 anni (agli ITS, la più importante novità degli ultimi tempi in fatto di offerta formativa post-secondaria, alla fine del 2018 erano iscritti poco più di 11.000 studenti, ovvero lo 0,2% dei circa 500.000 maturati).

In questo contesto, i licei (almeno alcuni indirizzi) sembrano fungere troppo spesso da area di sosta, in attesa di tentare la sorte all’università, dove, di conseguenza, il tasso di fallimento e abbandono è molto alto (nel 2015, ad esempio, si sono iscritti all’università 62 maturati su 100, ma dopo cinque anni gli abbandoni superavano già il 30%). Da notare che le iscrizioni al primo anno di università sono coerenti con quelle in uscita dai licei, addizionati di una quota nettamente minoritaria di iscrizioni universitarie in uscita da tecnici e professionali che, peraltro, registrano anche la più alta “mortalità” accademica.

Anche qui, le cifre, scomposte su base geografica e socio-economica, non fanno che aggravare il dato, facendo segnare una grande varianza tra nord e sud, tra università importanti e università di minor prestigio, dove gli abbandoni raggiungono percentuali altissime (in certi casi fino al 62%). Tutto ciò perché la scuola ha smesso da tempo di fungere da ascensore sociale e si limita a “fotografare” con sempre maggiore fedeltà le disparità delle condizioni di partenza degli studenti e perché, di conseguenza, la laurea continua ad essere per molti ragazzi e molte famiglie un traguardo sociale più che professionale.

Due suggerimenti tra i tanti possibili:

  • Impiegare maggiori risorse, materiali e intellettuali, per valorizzare i curricula degli istituti tecnici e, soprattutto, dei professionali, sia sul piano dei contenuti che su quello del prestigio sociale. Si tratta di investire per riscattare la marginalità.
  • Sostenere, valorizzare e far conoscere di più gli sbocchi post-secondari non accademici oggi attivi (ITS), facendoli diventare socialmente più accattivanti e corrispondenti ai bisogni della produzione e della ricerca tecnologica.
  • Mutare la configurazione della laurea triennale, che dovrebbe acquisire il profilo di un percorso formativo autonomo e di per sé qualificato, cessando di apparire, come oggi è nella maggior parte dei casi, una laurea dimidiata, una mera tappa di avvicinamento a un traguardo, l’unico davvero “serio”, che resta pur sempre quello della laurea quinquennale.

[1] Il dato migliora per la fascia d’età 25-34. Per la laurea triennale è di 15,28% contro il 17,3 dell’Europa.

 

Claudio Salone