Norvegia: laboratorio di riforme universitarie
Sebbene la Norvegia non abbia rappresentato un caso di riforma particolarmente radicale nell’ambito del settore dell’higher education negli ultimi anni, a differenza, per esempio, della Svezia, tuttavia i cambiamenti che si sono verificati in questo Paese hanno avuto effetti particolarmente duraturi. Per molti atenei norvegesi infatti si sono verificati numerosi passi avanti nel senso di una maggiore democratizzazione nei meccanismi di decision making e nella decisione di costituire i district colleges, università con corsi brevi. Oltre a questi ultimi, hanno cominciato a essere considerate parte integrante del settore dell’higher education altre istituzioni quali le cosiddette høgskola, che comprendevano scuole di musica, di educazione marittima, agricola, tecnologica. Dunque un insieme di discipline che fino allora erano tenute fuori dalla “nobile” definizione di educazione universitaria (Bleiklie, I., R. Høstaker, et al. (2000) “Policy and practice in higher education: reforming Norwegian universities”, London, Jessica Kingsley Publishers).
L’innovazione ha prodotto nel tempo risultati notevoli in termini di popolazione studentesca, tanto che si stima che di 82.000 studenti attualmente afferenti al settore dell’istruzione universitaria, circa 42.000 sia iscritto alle istituzioni nuove nominate in precedenza. Una vera e propria rivoluzione che però mette a nudo un’esigenza sociale importante, quella di conferire uno status universitario o simile a discipline e settori ritenuti per molto tempo su un gradino più basso, e invece avvertiti oggi come particolarmente importanti e positivi in termini di legame con il mondo del lavoro. Questa nuova struttura del settore universitario ha anche portato a rivedere una serie di equilibri di forza nei poteri che su di esso hanno influenza. Il corpo accademico, una volta king maker, ha dovuto cominciare a tenere conto dell’opinione e del parere di diversi attori politici ed economici a livello regionale e locale che hanno un più chiaro legame con le nuove discipline. Questo ha ridisegnato anche i meccanismi di governance delle università, contribuendo a farle uscire (almeno un po’) dalle tradizionali torri d’avorio che le separavano dalla realtà. Come è ovvio a questa nuova situazione sono seguite diverse proteste da parte dei poteri che perdevano influenza, primo fra tutti quello dei professori, o baronale per essere più circoscritti (visto che non tutti i professori avevano un interesse nel mantenimento dello status quo ante).
In ogni caso si può storicamente dividere la fase di implementazione delle riforme nel settore dell’higher education norvegese in due macroparti: 1) la prima portata avanti in prima persona dal Ministero dell’Educazione, che ha avuto come conseguenza una serie di modifiche nell’ambito delle università per adattarsi alle nuove linee guida; 2) la seconda portata avanti dai singoli college, e volta a conseguire gli obiettivi accademici, amministrativi ed economici della riforma stessa. Il risultato è stato un lento ma costante processo di cambiamento nel settore che oggi è riuscito a coniugare un allargamento forte della sua base studentesca a un innalzamento dei livelli qualitativi in termini di insegnamento e risultati conseguiti (tra i più alti del mondo) passando per un importante e strutturale cambiamento della governance. Un esempio del fatto che non sempre quantità e qualità sono antitetiche tra loro e, soprattutto, del fatto che quando i processi riformatori sono seri, possono avere conseguenze più durature di misure fortemente radicali caratterizzate soprattutto da ideologia e demagogia.
PER APPROFONDIRE:
Governing Higher Education: National Perspectives on Institutional Governance su Google Books
Damiano De Rosa