Non è una partita italiano-inglese 1 a 0
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La vicenda dei corsi in lingua inglese nelle università italiane.
«Finalmente, una volta tanto, è arrivata la pronuncia definitiva che dà ragione totalmente e integralmente alla lingua italiana. Una bellissima vittoria»: questo, il commento del presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini. L’ultima sentenza del Consiglio di Stato, pubblicata il 29 gennaio 2018 applica i principi guida contenuti nella sentenza n. 42 della Corte Costituzionale (decisione del 21/02/2017), respinge il ricorso in appello presentato dal MIUR e dal Politecnico e ribadisce l’importanza e la funzione della lingua italiana in nome della tutela del patrimonio culturale, del principio d’eguaglianza, della libertà d’insegnamento e dell’autonomia universitaria.
I fatti. La storia comincia nel 2012. Il Politecnico di Milano aveva stabilito di organizzare, a partire dal 2014, corsi di laurea magistrale e dottorati solo in lingua inglese. Nel 2013 il ricorso al Tar di un gruppo di docenti, aveva portato a bloccare la decisione, Politecnico e MIUR si erano appellati al Consiglio di Stato; questo organo, dopo un primo passaggio, in base a quanto deciso successivamente dalla corte Costituzionale lo scorso anno, in merito alla legge Gelmini del 2010 (sì alle lezioni in lingua straniera, ma solo se affiancate da lezioni in italiano) chiude definitivamente la questione con la nuova sentenza. Giusta e comprensibile la soddisfazione della Crusca che, sul tema, ha pubblicato nel 2014 un interessante volume di riflessione sul ruolo della lingua italiana nei tanti spazi che il mondo “allargato” di oggi esplora (L’ italiano dei saperi. Ricerca, scoperta, innovazione” curato da Domenico De Martino e Nicoletta Maraschio). Tuttavia, proprio a partire dall’ultima sentenza, appare utile continuare a ragionare su una questione non banale. La questione della lingua non è solo un capitolo complesso della storia letteraria del nostro paese, spesso infatti ricompare quando, talora in modo improvvisato, ma non sempre e non solo per correre dietro alle mode, si operano forzature e si cerca il confronto col “nuovo”.
La sentenza. La lettura della prima parte dell’ultimo dispositivo può essere utile. Dopo una ricostruzione dei fatti (decisione del Politecnico, ricorso dei docenti al Tar, accoglimento del ricorso ecc.ecc.) la sentenza si esprime in questo modo (il testo è di seguito riportato letteralmente):….. i) il contrasto dell’obbligatorietà dell’insegnamento in lingua inglese con il principio, di rilevanza costituzionale, desumibile dall’art. 6 Cost., che prevede la tutela delle minoranze linguistiche, e da altre disposizioni di legge costituzionale, della centralità e dell’ufficialità della lingua italiana; ii) la necessità di garantire che la lingua italiana non subisca trattamenti deteriori [SIC]rispetto a lingue straniere non oggetto di specifiche norme di tutela, ……… necessità della quale è espressione, per gli insegnamenti universitari, l’art. 271 del regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592, [sì proprio quello che nel punto b , per fortuna abrogato, dell’art.275 prevedeva, come condizione per l’insegnamento nell’università, l’iscrizione al partito fascista] secondo il quale «la lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari» e che non può ritenersi incompatibile, e quindi abrogato ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile, dalla norma del 2010, altrimenti dovendosi dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 2 comma 2 lett l) della medesima legge n. 240; iii) la non collocazione, per effetto di quest’ultima disposizione, della lingua italiana in posizione subordinata rispetto a lingue straniere, perché l’uso della congiunzione «anche», nel testo della norma, esclude la tassatività dell’indicazione, in coerenza sia con l’autonomia ordinamentale delle università, sia con la vocazione della norma stessa, volta a porre criteri direttivi, sicché l’uso della lingua straniera deve affiancare, e non sostituire, quello dell’italiano”.
Se si continua a scorrere il testo della sentenza, espressioni, quanto meno bizzarre, per esempio “trattamenti deteriori,” scelta di riferimenti un po’ …. chiacchierati, anacoluti e usi spregiudicati della congiunzione “anche”, ma non solo, potrebbero essere occasione per stimolare una riflessione più ampia sulle varie forme, anche linguistiche, in cui si esercita il potere burocratico/ amministrativo che segna i tempi e i modi dell’essere cittadini italiani.
L’italiano e le lingue delle”scienze nuove”. Del resto non è la prima volta che, dovendo fare i conti con le tante lingue delle scienze nuove, il rischio di un uso accademico e arcaicizzante dell’Italiano è stato contestato. Sicuramente nessuno pensava di cassare o sostituire l’uso dell’Italiano nel 1764, quando i redattori del Caffè pubblicarono la “Rinunzia avanti al notaio al Vocabolario della Crusca” ( A. Verri), ma, pretendendo di forzare lessici, regole grammaticali e ortografiche, e inserendo francesismi o peggio, dichiaravano che “ useremo ne’ fogli nostri di quella lingua che s’intende dagli uomini colti da Reggio Calabria sino alle Alpi; tali sono i confini che vi fissiamo con ampia facoltà di volar talora di là dal mare e dai monti a prendere il buono in ogni dove”. Le parole devono servire le idee e non viceversa, pensavano questi signori imparruccati; oggi anche noi ci troviamo di fronte a un problema simile che richiede molta attenzione, prudenza e ragionevolezza. Non si tratta di giocare una partita inglese- italiano, risultato 0 a 1, ma di analizzare con lucida tranquillità i problemi, per nominarli col loro nome. L’uso inutile, cialtronesco, di parole anglo-americane in sostituzione di chiare e efficaci parole italiane, deve essere denunciato, ma nessuno si scandalizza se nelle aule universitarie si fa un larghissimo uso, non solo nelle discipline scientifiche, della lingua in cui quelle discipline si sono sviluppate e continuano a produrre ricerca, discussione e confronto. Da qui una domanda: pensiamo che sia davvero utile immaginare una duplicazione di corsi (perché questo sembrano suggerire gli “anche” della sentenza”), invece di affrontare direttamente il problema della efficacia di una didattica che deve avere come punti di riferimento: le discipline, la comunicazione scientifica e didattica, lo sviluppo di capacità riflessive e argomentative? I nostri studenti, che vanno in Olanda, Svezia, Danimarca, frequentano tranquillamente corsi in lingua inglese (l’obiezione non può essere certo che lì non hanno avuto Dante e Michelangelo), mentre contemporaneamente assistiamo ad un aumento molto significativo di studenti, che all’estero studiano l’Italiano (2.233.373 dati MIUR e MAE 2014-15). Nel corso degli ultimi 10 anni gli universitari stranieri in Italia sono raddoppiati, stiamo entrando tra i paesi che giocano un ruolo “new Player” dice l’Ocse, nel mercato internazionale dell’istruzione; il 2% di studenti stranieri scelgono tra le mete cui rivolgersi il nostro paese, abbiamo raggiunto la Cina, superato Olanda e Belgio, anche se siamo lontani dagli Usa (16%) o da Francia e Germania ( 6%) . L’European Migration Network registra che i corsi di laurea più attrattivi in Italia sono economia, ingegneria e medicina (dati 2012), i paesi più rappresentati Albania, Cina e Camerun; l’Alma Mater di Bologna si presenta come uno tra gli atenei più “cosmopoliti”: 899 matricole internazionali nel 2014, 122 delle quali iscritte al corso di scienze dell’economia e gestione aziendale. I redattori del Caffè andavano dal notaio, oggi potremmo evitare di affidarci alle sentenze di Tar ed a ricorsi a superiori Corti ed avviare sperimentazioni capaci di premiare, dentro i processi di internazionalizzazione, l’autonomia delle nostre Università.
Vittoria Gallina