L’educazione degli adulti nel sistema pubblico di istruzione: alcune perplessità

Il Consiglio dei Ministri ha recentemente approvato, in prima lettura, il testo di un regolamento che dovrebbe portare a costruire all’interno del sistema pubblico di istruzione un settore specifico, dedicato all’istruzione degli adulti, costituito da strutture autonome rispetto alle altre istituzioni scolastiche.

In tali strutture (denominate Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti) verranno ricondotti, a partire dall’a.s. 2010/2011, gli attuali CTP e i Corsi serali della secondaria superiore. Ci sarebbe da dire: finalmente! Se non che il dispositivo in questione nella sua stesura attuale e il modo in cui si è proceduto nella sua elaborazione suscitano alcune perplessità. La prima riguarda la tipologia di attività che vengono assegnate ai nuovi Centri. Nel testo si legge che “i Centri realizzano un’offerta formativa finalizzata al conseguimento del titolo di studio e di certificazioni riferiti al primo ciclo e al secondo ciclo di istruzione in relazione ai percorsi degli istituti tecnici, degli istituti professionali e dei licei artistici”; ai Centri possono accedere solo gli adulti “che non hanno assolto all’obbligo di istruzione o che non sono in possesso di titoli di studio di secondaria superiore”. Se facciamo un confronto con la tipologia di attività attribuite ai CTP dalla O.M. 455/97 e dalla successiva D.M. 22/2001 constatiamo che è stata operata una drastica riduzione. Non vengono più previsti i percorsi di alfabetizzazione funzionale, mentre quelli di alfabetizzazione culturale e quelli di lingua italiana per stranieri sono possibili solo come parte di un percorso finalizzato al conseguimento del titolo di studio. Il documento ministeriale non fornisce spiegazioni in merito a questa scelta, al di là di quanto viene detto nella premessa generale (e generica) contenuta nel primo comma dell’art.1: al fine di una maggiore razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali disponibili, che conferiscano una maggiore efficacia ed efficienza al sistema scolastico.

Ma siamo sicuri che la riduzione operata potrà conferire maggiore efficacia ed efficienza al sistema? Se uno dei parametri per misurare l’efficacia e l’efficienza del sistema consiste nella capacità di riportare molti adulti in formazione e offrire loro concrete opportunità di elevare il proprio livello di istruzione, l’esperienza ci dice che la strada imboccata non è quella giusta. Per rendersene conto basta considerare che per molti adulti la frequenza di un corso di alfabetizzazione funzionale è stato un primo momento di rientro in formazione, che ha funzionato da volano per la partecipazione a ulteriori momenti costituiti magari da percorsi più impegnativi. Perché, come ci spiegano le teorie adultiste, i bisogni formativi si precisano strada facendo.

In termini generali, qualsiasi obiettivo si intenda privilegiare, bisogna per prima cosa considerare che il pubblico adulto con bassi livelli di cultura e scolarità ha una percezione molto vaga dei propri bisogni formativi, utilizza meno di altri le opportunità che vengono offerte, tende a non esprimere una domanda di formazione. Di conseguenza, gli interventi rivolti a tale pubblico devono essere in primo luogo concepiti come interventi volti a promuovere la domanda.

Come molti ricorderanno, questo fondamentale nodo problematico era presente nel testo dell’Accordo per la riorganizzazione e il potenziamento dell’educazione degli adulti siglato tra Stato, Regioni e autonomie locali nel marzo 2000, laddove si affermava: lo sviluppo della domanda si realizza rispondendo alla domanda iniziale qualunque essa sia, e prefigurando percorsi che facciano sentire il bisogno di ulteriore impegno verso nuove esperienze.

E allora, dove sta l’urgenza di una separazione tra offerta non formale e offerta formale (e considerare solo quest’ultima come compito dello Stato) che tanto sembra preoccupare gli estensori del nuovo regolamento? Anche in considerazione del fatto che nell’offerta non formale dei CTP vengono coinvolte circa 300.000 persone all’anno (il 70% dell’utenza complessiva dell’attuale sistema di istruzione degli adulti). E, d’altra parte, si può ragionevolmente sostenere che il sistema pubblico di istruzione non debba occuparsi dell’alfabetizzazione funzionale dei cittadini e del fenomeno (la cui diffusione nel nostro paese è ampiamente documentata) dell’analfabetismo di ritorno, ovvero dell’aggiornamento e del recupero di competenze di base che consentirebbero un esercizio più attivo della cittadinanza?

La seconda perplessità che nasce dalla lettura del nuovo dispositivo ministeriale deriva dall’assenza di un qualsiasi riferimento a una strategia complessiva al cui interno situare la riorganizzazione che viene proposta.

Si calcola che nel nostro Paese ci sono più di 20 milioni di adulti in età lavorativa con bassi livelli di istruzione e formazione. Anche senza pretendere che vengano realizzati gli ambiziosi obiettivi delineati nella strategia europea di Lisbona 2000, si tratta di compiere un grosso sforzo e cercare di riportare in formazione, in tempi relativamente brevi, un numero molto elevato di persone.

È possibile, ci chiediamo, affrontare questo problema senza delineare i termini di un rapporto tra l’intervento dello Stato e quello delle Regioni e degli enti locali; tra l’intervento del sistema istruzione e quello del sistema della formazione professionale? Anche su questo punto ci risulta difficile non fare riferimento alla lucida analisi contenuta nell’Accordo stato-regioni del 2000:

“Il ridisegno dell’architettura di sistema … richiede la promozione di una offerta integrata tra il sistema scolastico e il sistema di formazione professionale e tra questi e il mondo del lavoro. I soggetti istituzionali (Stato, Regioni ed Enti locali ) e le parti sociali debbono assumere un impegno … Occorre uno sforzo, politico e progettuale, per passare da un’organizzazione per sistemi chiusi ad una organizzazione di rete il cui obiettivo è costituito da risposte efficaci e differenziate ai diversi bisogni dell’utenza; senza questo passaggio … non sarà possibile parlare di … miglioramento della qualità complessiva del sistema”.

Di questi problemi non vi è traccia nel nuovo dispositivo, così si consuma un definitivo distacco rispetto alla filosofia che improntava lo storico accordo del 2000 del resto quel Accordo non compare tra la normativa di riferimento elencata in premessa.

Una terza perplessità riguarda il modo in cui l’operazione viene portata avanti. Dal dicembre 2006 (pubblicazione della legge finanziaria 2007, comma 632) chi opera nell’educazione degli adulti vive in permanente attesa di una trasformazioni del settore sul piano organizzativo e didattico. Una riorganizzazione che di tanto in tanto viene “annunciata” come imminente e poi rinviata (la bozza del 21 aprile scorso eliminava dai futuri CPIA i corsi di lingua italiana per stranieri, gli attuali alfabetizzatori dei CTP percepivano come ormai conclusa la loro carriera di educatori degli adulti). Tutto ciò ha contribuito a diffondere una sensazione di incertezza e precarietà sul proprio lavoro, sul proprio destino professionale. Inoltre, poiché il processo di riordino così come viene condotto si caratterizza come un processo a porte chiuse tra pochi addetti ai lavori (qualche dirigente ministeriale, qualche sindacalista e pochi altri), gli operatori che lavorano nel’ambito dell’educazione degli adulti vivono la frustrazione di chi pur avendo maturato esperienza nel campo dell’educazione degli adulti sa di non avere voce in capitolo sul futuro del settore.

Alcuni veterani hanno ancora memoria del fervore di iniziative che ha preceduto il varo della O.M. 455 del 1997. Incontri, dibattiti, seminari (spesso organizzati direttamente dal Ministero) hanno analizzato attentamente la lunga esperienza delle 150 ore ormai in crisi, coinvolgendo un gran numero di persone che quella esperienza direttamente o indirettamente avevano vissuto, per coglierne il valore e i limiti e trarre indicazioni di prospettiva. La 455 è stata una buona ordinanza anche grazie a questo lavoro “preparatorio” (utile per i decisori come per gli operatori) dal quale è derivata la positiva conseguenza che le necessarie innovazioni che si voleva introdurre, non fossero vissute come decisioni calate dall’alto.

Peccato che l’esperienza del 1997 non sia stata utilizzata come una buona indicazione di metodo, utile, nell’attuale fase di transizione!

Per approfondire:
www.retectp.it

Pasquale Calaminici