La chiamata diretta dei docenti, perché no?
Il presidente lombardo Formigoni ha proposto graduatorie regionali per gli insegnanti, allo scopo di eliminare la “transumanza” dei docenti che prendono servizio in Lombardia per tornarsene poi a casa loro. A prescindere dal sapore un po’ razzista della proposta, non pare uno strumento per affrontare il problema, che c’è, è serio, è molto sentito dai genitori, e inficia la possibilità di un reale progetto formativo delle scuole. L’annuale turnover dei docenti non avviene solo e tanto lungo la direttrice nord-sud, ma ? in assenza di altre forme di “carriera” e valorizzazione della professionalità ? costituisce un flusso che va dalla campagna alla città, dai professionali ai licei, dalle medie alle superiori, sulla base di titoli esclusivi di anzianità.
È invece molto importante l’altro elemento della proposta di Formigoni, la “chiamata diretta” dei docenti da parte delle scuole. È una proposta che può apparire provocatoria, quando dovrebbe invece risultare assolutamente logica e di buon senso. In realtà siamo ormai assuefatti a procedure stratificate da decenni, da non rendercene nemmeno conto. Perché, cosa c’è di logico nell’attuale sistema, dove non è il datore di lavoro (la scuola) che assume i dipendenti, ma sono i dipendenti che si scelgono il posto in cui lavorare, e sono anche i soli a decidere quando interrompere il rapporto di lavoro, scegliendo un’altra sede a loro più comoda o congeniale? Evitiamo pure i paragoni con le realtà aziendali private (ma perché mai?) e limitiamoci ad altri comparti del settore pubblico. Troveremmo sensato che i dipendenti comunali dipendessero dal Ministero degli interni e passassero ogni anno per graduatoria da un comune all’altro? O analogamente che medici e infermieri passassero annualmente da un ospedale all’altro, per loro scelta esclusiva e sulla base dell’anzianità e di ricongiungimenti familiari?
Non si tratta né di privatizzare il rapporto di lavoro, né di far assumere gli insegnanti da parte dei dirigenti, che a loro volta sono dipendenti delle scuole e anche loro devono essere assegnati a tempo dalla direzione regionale alle scuole. Si tratta invece di consentire alle scuole di assumere il proprio personale, secondo criteri pubblici e trasparenti (ma non burocratici) ottenendo un corpo professionale stabile, che s’identifica con la scuola e con il suo progetto formativo, e con le necessità delle scelte derivanti dall’autonomia. Perché l’autonomia sarà solo una parola vuota se le unità scolastiche non saranno messe nelle condizioni di gestire autonomamente (e responsabilmente, cioè rispondendo di quello che fanno) le risorse, tanto quelle economiche che quelle umane.
I docenti candidati all’assunzione dovrebbero essere quelli provenienti dall’albo degli abilitati, cioè docenti formati dall’università, sulla base di una rigida selezione. Se il contingente di docenti in servizio “a regime” nei prossimi vent’anni è stimabile tra le 500 e le 600 mila unità (se si riuscirà ad adeguare il rapporto docenti/alunni agli standard OCSE) e immaginiamo un’auspicabile stratificazione per classi di età, serviranno grosso modo, per rimpiazzare i pensionamenti, 20.000 nuovi docenti ogni anno, su tutto il territorio nazionale e per tutti gli ordini di scuola. Un numero esiguo, facilmente programmabile, selezionabile, formabile.
Faccio un esempio: ogni anno, a regime, occorrerà rimpiazzare due/tremila insegnanti di lingua italiana, o di matematica (su tutti gli ordini di scuola); molti meno per altre aree disciplinari. È bene allora ammetterne al corso di laurea magistrale non più di quattromila, mediante una rigorosa selezione che consenta l’accesso ai migliori laureati del corso triennale. Questo processo dovrebbe già da solo assicurare in buona misura l’accesso alla professione solo delle persone più motivate e più preparate. E insieme eliminerebbe le false aspettative e ridurrebbe l’esercito dei precari prodotti dall’attuale modello.
Il corso di laurea magistrale non deve però ridursi a una specializzazione disciplinare; accanto allo studio di alcune discipline complementari (ad esempio, per i matematici, fisica, chimica, scienze, per non avere un docente monotematico), deve prevedere soprattutto percorsi di pedagogia, epistemologia, didattica, e una forte componente di tirocinio nelle scuole e nelle classi. Con una stretta collaborazione tra l’università e le scuole e le associazioni professionali. Non servono corsi in tutte le università italiane, per formare tre-quattromila docenti l’anno. È un numero talmente ridotto da poter essere seguito, guidato, monitorato, accompagnato nelle attività di tirocinio. Promuovendo nuove leve di docenti motivati, preparati, selezionati, e che hanno scelto fin dall’inizio l’insegnamento come una professione nella quale investire il proprio futuro e retribuiti con stipendi adeguati agli standard europei.
Claudio Cremaschi