La motivazione dello studente è anche affare dell’insegnante?
“È intelligente ma non si applica…” un ritornello che si sente spesso, soprattutto quando si tratta di valutare il rendimento degli alunni all’interno dei consigli di classe o quando si discute con i genitori. Di fronte ai risultati insoddisfacenti di un allievo, cui si riconoscono buone capacità, è frequente il ricorso a “diagnosi motivazionali” che attribuiscono ad una sfera esterna alla didattica la responsabilità dell’insuccesso scolastico. Se l’alunno non “rende” quanto dovrebbe, la colpa è della sua demotivazione. La demotivazione è colpa dell’alunno. Nel momento della valutazione, si vorrebbe a volte riconoscere il talento di un alunno ma, a fronte della forza di volontà di un compagno “meno dotato”, si esita, temendo di premiare aspetti innati, che poco avrebbero a che vedere con la volontà dell’allievo…
Chi insegna legge i segnali di questa demotivazione, diffusissima nelle nostre classi: disinteresse, distrazione, apatia, che in certi contesti o situazioni possono degenerare in comportamenti devianti, fino all’indisciplina o alla vera e propria ribellione. Nel corso degli anni per un insegnante è diventato sempre più difficile motivare gli alunni, in particolare sollecitarne l’interesse allo studio. Ma la motivazione appartiene esclusivamente all’allievo? Certamente no. La famiglia, l’ambiente sociale di riferimento, il gruppo dei pari, sono solo le variabili più rilevanti ad essere coinvolte; chiunque, applicando semplicemente il buon senso, lo riconosce.
E gli insegnanti? La tendenza, soprattutto nelle scuole del secondo ciclo, è di non considerare la scuola come un potente fattore motivazionale: eppure sulla motivazione allo studio l’influenza della scuola, in positivo o in negativo, è di grande importanza. Non riconoscerlo legittima disimpegno e valutazioni frettolose e deresponsabilizzanti. Invocare le trasformazioni sociali ed antropologiche, i progressi tecnologici che rendono lente ed obsolete le modalità comunicative nelle nostre scuole, non ci porta molto lontano. Ci chiediamo quindi come la scuola, attraverso le sue pratiche didattiche, possa influire sull’orientamento motivazionale degli studenti, e di quali risorse dispongano gli insegnanti per influire positivamente sulla motivazione degli allievi.
Tra le tante variabili coinvolte, possiamo individuare tre dimensioni essenziali che costruiscono e sostengono l’interesse “scolastico” dell’alunno: la risorsa culturale, la risorsa metodologica, la risorsa relazionale. Certamente l’insegnante può incidere sulla motivazione degli allievi se coltiva congiuntamente i tre ambiti e crea le condizioni per non ridurre l’ambiente di apprendimento a mero erogatore di contenuti, a generico contenitore di espedienti metodologici o a semplice benché piacevole contesto di relazioni empatiche.
La risorsa culturale: scegliere contenuti significativi
La sfida consiste nel suscitare interesse attraverso i contenuti trattati a scuola. In questo non è certo indifferente il modo in cui gli argomenti scolastici vengono trattati in aula, quindi la dimensione metodologica e quella relazionale non possono essere separate da quella culturale. Ma un interesse autentico può essere attivato solo se i temi trattati in classe incrociano gli spazi di significatività dei ragazzi, le loro esperienze e le loro esistenze. Pensare che qualsiasi cosa, anche la più astratta, possa essere insegnata suscitando interesse nei ragazzi, se l’insegnante è abile dal punto di vista metodologico e relazionale, rischia di essere un luogo comune, che può incoraggiare i docenti ad esimersi dal selezionare e “distillare” i contenuti da proporre agli studenti. Al contrario, il docente deve avere il coraggio di scegliere nella mole delle nozioni e dei possibili saperi quelli più idonei a incontrare le caratteristiche e i modi di apprendimento dei ragazzi.
La risorsa metodologica: “costruire” un ambiente di apprendimento
La scelta di contenuti che parlino ai ragazzi dovrebbe integrarsi con un approccio metodologico coinvolgente, che costruisca un ambiente di apprendimento capace di insegnare la cooperazione, la capacità di porre e risolvere problemi, di decostruire e ricostruire i saperi. La didattica laboratoriale, gli approcci cooperativi e meta-cognitivi risultano certamente più efficaci per sostenere la motivazione e l’interesse rispetto alla tradizionale lezione frontale. Una svolta metodologica si impone e le tecnologie possono essere di grande aiuto, anche se sono solo strumenti a servizio di un approccio che deve mutare nel suo assetto di fondo.
La risorsa relazionale: prendersi cura e incoraggiare L’insegnamento-apprendimento non può essere una mera questione tecnica. L’esperienza dimostra che un atteggiamento di cura e di empatia influenza positivamente la motivazione. Non è pensabile che i ragazzi possano fare a meno dell’apporto relazionale degli insegnanti e, se l’insegnante non ci crede per primo, come potranno crederci gli studenti? Nessuno studente è davvero indifferente all’insuccesso, o al successo. L’apparente compiacimento dell’insuccesso da parte di alcuni alunni è solo la spia di una ricerca mal posta di visibilità che segue a un atto di drammatica rinuncia, che l’insegnante non può rassegnarsi ad accettare.
Quali risorse per gli insegnanti?
Per essere motivante l’insegnante deve essere motivato. A questo riguardo il primo aspetto importante riguarda il rapporto che ogni insegnante istituisce con il proprio sapere, in particolare con la propria disciplina. Ogni docente insegna la “sua” materia, ma in che modo è “sua”? Che tipo di rapporto instaura con la “sua” materia? Un rapporto formalizzato (e spersonalizzato), che passa cospicuamente attraverso il libro di testo, oppure un rapporto personale, originale, in cui la materia vive nella sua mente (e nel suo cuore) e accetta di farsi contaminare con i saperi non formali portati dagli studenti, con gli altri saperi presenti a scuola (soprattutto i saperi di “altri” docenti) o che irrompono dal fuori scuola? “Soltanto chi è capace di smarrire confini ed accogliere contaminazioni è colui che è profondamente abitato dal sapere che insegna” (Maurizio Muraglia, 2013).
Se il sapere si colora emotivamente è più facile che uno studente riesca a stabilire un “suo” rapporto con quel sapere e questo accade se l’insegnante riesce a porgergli i contenuti filtrandoli mediante una rielaborazione che passa attraverso la relazione. Un insegnante che opera così non è solo un “portavoce” dei saperi, ma una voce che può riverberarsi nei suoi allievi.
In altre parole, se l’insegnante riesce a far uscire la sua materia dal manuale, allora questa diventa un sapere che può motivare i ragazzi.
Tale disposizione implica una profonda padronanza culturale della materia da parte del docente, che deve padroneggiarne l’epistemologia e i nuclei fondanti. A questa va unita una carica di passione e una competenza metodologica che nasce dall’entusiasmo di farsi coinvolgere e si approfondisce con la sedimentazione dell’esperienza.
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Immagine in testata di Mayr’s
Laura Barbirato