Alle radici del copiare
Una volta conclusa l’analisi dei commenti degli studenti, il vortice della critica ha risucchiato anche il professore che del libro ha fatto un’egregia sintesi (tanto che diversi rispondenti confondono l’autore dell’articolo con l’autore del libro) e che infine esprime le alcune considerazioni che non condividiamo.
D’accordo con Maurizio Tiriticco quando sostiene che scuola italiana (e non solo) s’ispira a modelli formativi in cui l’individualità fa aggio sulla collaborazione. Anzi, diciamo che non c’è partita. A rammentarcelo ogni giorno provvede la retorica della competizione che incarna fedelmente lo “zeigeist” degli ultimi decenni. Il resto del discorso, invece, non ci torna. Vediamo punto per punto.
L’alunno, nonostante la ricerca pedagogica solleciti e indichi altre forme di scuola, vive e opera in un ambiente in cui è pur sempre una monade: l’interrogazione e il compito in classe riguardano lui soltanto. Se in casa studia con un compagno, sono fatti suoi! Se vuole fare un compito insieme a un compagno, non può! E sembra proprio che non gli resti che copiare! Sul registro è segnato lui, solo, e sempre in rigido ordine alfabetico. È pur sempre un numero (la solitudine dei numeri primi?) e, se ha bisogno di aiuto, questo non gli viene concesso se non per la via traversa del “copio copias”.
È difficile immaginare un sistema scolastico che non faccia uso (neppure in dosi modiche) di verifiche individuali “sommative” delle competenze acquisite da ciascun alunno. “Le pratiche scolastiche socializzano gli alunni anche a una vita di valutazione basata sulle prestazioni individuali” [1]. Questa logica può essere idealmente condivisa o criticata, tuttavia è applicata dai sistemi scolastici di tutto il mondo. L’esigenza di un cambiamento del modello pedagogico che stemperi l’enfasi individualistica c’è e a farsene portavoce è una studentessa (una sola) che si chiede:
“…forse, è la stessa organizzazione scolastica che induce al ‘copio copias’? È il modello della scuola in cui vivono e operano gli studenti a creare le condizioni del copiare? Se ciò fosse vero, anche la scuola ha la sua responsabilità, perché non è capace di indirizzare gli alunni verso forme collaborative ‘oneste’, come l’apprendimento cooperativo e il lavoro di gruppo. Gli alunni sono soli di fronte all’interrogazione e al compito in classe e se hanno bisogno di aiuto, ciò non viene compreso, viene loro negato e allora non resta altra via che copiare. Pertanto per recuperare la lealtà, la responsabilità personale e quel senso di dovere è necessario che ognuno si assuma le proprie responsabilità e che gli alunni e l’istituzione scolastica percorrano insieme la stessa strada: quella dell’onestà e della lealtà”. (F. 3a A l. s.)
Con un’apprezzabile sensibilità comunitaria, la ragazza critica l’attuale modello di scuola in nome di una visione collaborativa dell’istruzione. La sferzata conclusiva del suo discorso è però un segnale di realismo e ragionevolezza. Bisogna tenere i piedi per terra e la coscienza al timone. Ciò che, in secondo luogo, ci pare improbabile è che di fronte alla solitudine dei loro studenti, gli insegnanti si mostrino per lo più insensibili, impotenti o negligenti. A nostro avviso, “rebus sic stantibus”, ci sono pure dei docenti coscienziosi e generosi in Italia!
In terzo luogo, l’inesistenza (o quasi) dei compiti in classe “collaborativi” non legittima lo studente a copiare i compiti individuali, né tantomeno le prove d’esame. Infine, nella stessa vena, ci pare non sia sensato tirare in ballo la rigidità dell’ordine alfabetico del registro per farne un salvacondotto per copiare.
In effetti, non è forse il modello stesso di scuola, che “sapientemente” abbiamo costruito nel corso dei nostri 150 anni di storia nazionale, a creare le condizioni del copiare? Quali altre forme di aiuto, sostegno, cooperazione possono trovare i nostri alunni quando sono sempre chiamati a prestazioni rigidamente individuali? È “naturale” – con tutte le virgolette del caso – che tra pari ci si aiuti ed è anche “doveroso”, ma se le condizioni per un aiuto produttivo naturale, legittimo e produttivo sono negate a priori, cos’altro possono fare i nostri alunni? D’altra parte, non si copia anche da adulti e non solo ai concorsi, ma anche lungo il “progress” della professione? Il fenomeno quindi riguarda la scuola, ma non nasce a scuola: anzi, possiamo anche dire che è proprio nella scuola che si impara a copiare. E poi, quando gli stessi insegnanti – alcuni soltanto, penso – fingono di non vedere copiature in determinate situazioni di esame o di prove di verifica nazionale, o quando esso stessi contribuiscono a “taroccarle”, possiamo allora dire che il fenomeno va oltre la scuola degli alunni.
Nei 150 anni di Unità d’Italia troppa acqua è passata sotto i ponti perché si possano proporre generalizzazioni estreme sulle strategie formative della scuola. L’affermazione “cos’altro possono fare i nostri alunni se non copiare” offre una spalla giustificazionista ai copiatori mentre non è sostenibile dal punto di vista dell’analisi storico-sociale. La mancanza sistemica di solidarietà e di sostegno agli alunni non è la matrice degli imbrogli scolastici. L’una e gli altri affondano le radici nei sedimenti più profondi dell’assetto economico e culturale dell’Italia della nostra epoca. L’analisi dei commenti mostra che gli studenti non hanno preso in considerazione le argomentazioni del professore per invocarle a discolpa del copiare. In tutte le 43 corrispondenze registrate, la parola “solo” assume il significato di “soltanto/esclusivamente”. Le poche volte in cui gli studenti sostengono che la copiatura può essere un comportamento solidale, l’argomento che mettono in campo è la solidarietà tra pari. Della solitudine strutturale non fanno cenno, né lamentano la mancanza di aiuto da parte dei loro insegnanti. L’unica persona che ha ipotizzato che copiare discenda dalla mancanza di forme di apprendimento cooperative giunge presto a una conclusione ragionevole, con i piedi per terra e la coscienza al timone della sua condotta.
[1] Steven Brint, “Scuola e società”, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 172.
Marcello Dei