Scuola media, anello debole del nostro sistema di istruzione?
È bene che sulla scuola media si riapra la discussione; con essa, è possibile che si torni a parlare delle strategie che, un decennio fa, collegavano la riorganizzazione del ciclo di istruzione secondaria di primo grado all’auspicabile allineamento internazionale a 18 anni dell’età di conseguimento dei diplomi. Ma, per tanti motivi, oggi sarebbe preferibile una distinzione tra i due ambiti di intervento. La riduzione a dodici anni dell’istruzione iniziale è una scelta da non rinviare. Rappresenta, infatti, un obiettivo ragionevole da più punti di vista: in primis, comporterebbe l’eliminazione dell’assurdo ritardo con cui, rispetto ai coetanei europei, i diplomati italiani si presentano sul mercato del lavoro o intraprendono gli eventuali studi terziari, anch’essi assai lunghi; presenta, inoltre, il duplice vantaggio di un alleggerimento dei costi delle famiglie, e dell’apertura di articolazioni e flessibilità nell’uso delle risorse, indispensabili a un funzionamento più efficace della scuola secondaria superiore, orientamento compreso.
La crisi di identità della scuola media, d’altro canto, non si risolve con riforme ordinamentali che, nell’esperienza italiana, sono sempre calvari lunghi, complessi, esposti a liquidazioni e ripensamenti, e che, comunque, sappiamo non essere l’alfa e l’omega del cambiamento. Ci sono invece criticità così acute da richiedere interventi specifici e ravvicinati nel tempo. È negli anni nevralgici della preadolescenza che si decidono i fondamenti, la significatività e il valore per ciascuno dell’apprendimento formale, gli stili e i metodi di studio, il riconoscimento delle motivazioni e dei talenti, perfino – “absit iniuria verbis” per chi identifichi la condizione giovanile con lo status di studente a tempo indeterminato – l’interesse a percorsi formativi indirizzati presto a un lavoro. Non c’è proprio bisogno, insomma, di contrarre il tempo educativo dedicato agli anni più complicati della crescita. Bisogna, al contrario, utilizzarlo bene per evitare che, proprio quando la fragilità individuale è massima, possano compiersi scelte svantaggiose che andranno a incidere pesantemente sul destino dell’individuo.
Discuterne è necessario. La diagnosi offerta dall’ultimo “Rapporto sulla scuola della Fondazione Agnelli” (“Rapporto sulla scuola in Italia”, 2011, Bari, Laterza), dedicato appunto alla scuola media, offre spunti importanti di riflessione e una presa di parola, da troppo tempo assente, del suo corpo professionale.
Colpisce, tra i tanti dati richiamati, il netto peggioramento, rispetto alla primaria, degli apprendimenti in matematica e scienze, rilevato a quattro anni di distanza, sulla stessa coorte di studenti, dall’indagine TIMSS. I punteggi, significativamente superiori alla media internazionale nella quarta classe della primaria, precipitano (-23 in matematica, -21 in scienze) nella terza classe della media. Non solo, in nessuno dei 12 Paesi messi a confronto, la riduzione appare così pronunciata come in Italia. Anello debole o no, le difficoltà ci sono, e sono evidenti. Anche gli insoddisfacenti risultati dei quindicenni rilevati da P.I.S.A parlano, come è noto, più di scuola media che di scuola superiore.
Come si spiega tutto ciò? Le criticità, in termini di demotivazione, scarsità di concentrazione ecc., degli anni della preadolescenza – presumibilmente analoghe in tutti i Paesi a sviluppo comparabile – non spiegano i divari internazionali, e neppure possono derivare in modo significativo, secondo la Fondazione, dalle diversità tra il modello italiano del 5+3 e quelli di altri Paesi. Anche l’interpretazione, diffusa nell’opinione pubblica e spesso utilizzata in funzione autogiustificativa dagli insegnanti, secondo cui la scuola media avrebbe finito con il sacrificare “la qualità all’equità” – cioè i risultati di apprendimento all’esigenza sociale di un accesso universalistico all’istruzione – sarebbe tutt’altro che convincente.
La realtà, in effetti, è peggiore dello stereotipo. La scuola media italiana non è di buona qualità e non riesce neppure a fare equità, visto che, a differenza di mezzo secolo fa, il problema principale oggi non è il conseguimento del titolo e l’accesso ai percorsi ulteriori, ma una decente qualità media degli apprendimenti. Sfogliando il repertorio dei dati, l’affermazione non sembra granché discutibile. Invece che garante delle pari opportunità nell’apprendimento, la scuola media si presenta piuttosto come l’incubatore di disuguaglianze destinate a esplodere nella secondaria superiore. Trattasi di svantaggi immancabilmente correlati a quelli socioculturali di partenza, che sono presenti, ovviamente, anche nella scuola primaria, e che però lì vengono più sapientemente compensati.
Nella scuola media no, quello che finisce col contare davvero è il livello di istruzione dei genitori, la nazionalità, il contesto territoriale, perfino il genere (sono a maggior rischio i maschi delle femmine). Stentano i figli di situazioni sociali svantaggiate, ma fanno pochi progressi anche quelli che hanno alle spalle situazioni più solide. Non solo. L’orientamento appare più simile a una ratificazione a posteriori dei successi o dei fallimenti educativi che alla promozione di talenti e attitudini individuali.
Si può parlare di ritardi culturali e di conservatorismi professionali, favoriti dal fatto che la scuola media non ha vissuto negli anni che pochi ritocchi? Può essere, ma sono comunque contrastanti con la sua “mission” dichiarata i modi, a dir poco disinvolti, con cui viene attuato nella formazione delle classi il sacrosanto principio della “equieterogeneità”. Le classi omogenee (un vizio prevalente nelle aree meridionali del Paese, ma presente anche nel centro-nord) sono tantissime perfino all’interno di uno stesso istituto, anche al di fuori delle aree metropolitane, connotate da quartieri a composizione sociale differenziata; lo studio della Fondazione Agnelli rileva, in proposito, una spiccata correlazione tra tale omogeneità, sia in alto sia in basso, e la modestia dei progressi: nelle classi di livello inferiore – viene spiegato – perché manca l’effetto “traino” dei migliori, ma anche in quelle di livello superiore perché il “cooperative learning”, decisivo nell’età in cui contano sopratutto i rapporti tra i pari, è messo a rischio dalle dinamiche di competitività che possono insorgere. Un quadro in cui non è l’equità a mettere in secondo piano l’efficacia, ma è, al contrario, l’efficacia a essere pregiudicata da una scarsa equità.
Si possono individuare ragioni specifiche di questo settore scolastico che contribuiscono a questo stato di cose? Secondo il Rapporto, sono numerose, e riguardano anche le caratteristiche del corpo docente. L’età media più alta, intanto, di tutto il sistema, che certo non favorisce l’adozione di metodologie innovative e neppure l’utilizzo didattico delle TIC, decisivo per un miglior rapporto con l’apprendimento scolastico di ragazzi innamorati delle nuove tecnologie, e abituati a stili cognitivi diversi da quelli peculiari all’insegnamento tradizionale. Un tasso altissimo di mobilità, e quindi di discontinuità didattica, determinato da un precariato più consistente che altrove, ma anche dalla irresistibile aspirazione a fuggire nei più nobili luoghi dell’istruzione superiore. E poi l’osso più duro: una didattica prevalentemente disciplinarista indotta dalla struttura del curricolo, e dalla scarsa propensione a lavorare in team sulle competenze chiave, e a scegliere (“essenzializzando”?) i contenuti.
Difficile non attribuire a una troppo brusca discontinuità, in tutti questi aspetti, dalla primaria alla media, e nelle turbolenze della preadolescenza, un impatto negativo sugli studenti. Le proposte delineate dal Rapporto toccano tutti questi punti, e anche altri. Si misurano con un orario didattico schiacciato tutto sull’insegnamento disciplinare in aula a classe intera, restituiscono valore e argomenti all’apertura di spazi, non solo laboratoriali, ma per piccoli gruppi, finalizzati al recupero, allo sviluppo dei diversi linguaggi, al riconoscimento delle diverse attitudini. Sottolineano l’aporia di un numero eccessivo ed eccessivamente frammentato di discipline tutte obbligatorie e tuttavia mai considerate di pari valore formativo, né tanto meno valorizzate come piste per il riconoscimento e lo sviluppo dei talenti di ciascuno. Ripropongono gli istituti comprensivi non come misura di risparmio di spesa.
Problemi non di oggi, ma elusi da troppo tempo. Definire gli interventi che servono, senza il pesante ingombro di ennesimi riordini ordinamentali, sarebbe di buon senso.
Fiorella Farinelli