L’esperienza italiana nel progetto europeo kidsINNscience
Il progetto KIS e i suoi materiali.
Lo speciale presenta i risultati ottenuti in Italia dalla sperimentazione del progetto kidsINNscience, in breve KIS, dal 2010 al 2013. Il progetto, nato e finanziato all’interno del 7° Programma Quadro dell’Unione Europea, come descritto nel primo articolo che ha dato il via alla collaborazione con Education 2.0 (“Possiamo utilizzare in Italia le pratiche innovative proposte da un altro paese?”), coinvolgeva nove paesi – sette europei e due latino americani –, e si proponeva, come altri progetti simili finanziati dallo stesso programma (si veda Scientix. The community for science education in Europe) di approfondire meglio le caratteristiche di una metodologia d’insegnamento/apprendimento delle scienze basata sull’investigazione (Inquiry Based Science Learning and Teaching. IBSLT, o più semplicemente Inquiry Based Science Education, IBSE). Si trattava di valutare la sua efficacia in diversi contesti – nei diversi paesi membri, ma anche in paesi non membri dell’Unione Europea – nei diversi livelli scolari e in relazione alle diversità culturali, di genere e di bisogni.
Il progetto KIS, in particolare, si è proposto di identificare e di adattare esperienze concrete d’insegnamento che nei diversi paesi venivano considerate “innovative”, da un lato per esaminare i “criteri” rispetto ai quali un’esperienza d’insegnamento delle scienze venisse considerata “di buona qualità” e “innovativa” e dall’altro per verificare la trasferibilità delle “pratiche” così selezionate e la loro adattabilità a contesti nazionali diversi. All’inizio sono state raccolte 81 Pratiche Innovative, di cui 28 sono state effettivamente scelte per essere adattate in un paese diverso da quello che le aveva proposte. La pubblicazione completa, contenente le schede delle 81 pratiche e una breve introduzione, è disponibile in inglese e in italiano sul sito del progetto KindsINNscience (Deliverable 3.1). Per quanto riguarda la scelta delle 28 Pratiche Innovative sulle 81 raccolte, la sperimentazione ha dovuto scegliere le più adatte ai contesti e agli obiettivi degli insegnanti che hanno accettato di far parte del progetto. Questa scelta non corrisponde quindi a una graduatoria di “merito”, ma solo di adattabilità alle esigenze espresse dagli insegnanti e dalle scuole. È in ogni caso un riconoscimento alla capacità italiana d’“innovazione esportabile” il fatto che ben 4 Pratiche Innovative siano state adattate e sperimentate, e che una proposta dell’Italia – quella per la scuola dell’infanzia dal titolo “Le patate non crescono sugli alberi” e che riportiamo tra “i materiali di questo speciale” – sia risultata la più sperimentata (in 4 paesi e a tre livelli di età: scuola dell’infanzia, scuola elementare e scuola secondaria di primo grado) tra tutte le 81 raccolte.
Tutte le PI prescelte dovevano corrispondere a “criteri di qualità” che il progetto aveva pre-definito e che ha poi corroborato durante la sperimentazione. I criteri di qualità, anch’essi pubblicati come “scheda allegata a questo speciale”, si sono largamente ispirati ai documenti nazionali, europei e internazionali sull’Educazione Scientifica, tra cui il “Rapporto Rocard” e l’indagine OCSE PISA.
In Europa il documento di riferimento per la diffusione dell’IBSE è il “Documento Rocard” dove si sostiene tra l’altro che: “la maggiore responsabilità del calo dell’interesse dei giovani verso gli studi scientifici risiede nei modi con cui la scienza viene insegnata a scuola” e che “i miglioramenti nell’educazione scientifica vanno realizzati attraverso una pedagogia rinnovata, che consiste nell’introduzione del metodo basato sull’investigazione (IBSE), nella formazione del corpo docente rispetto a tali metodi e nello sviluppo di reti professionali di insegnanti”.
Anche in Italia si parla da anni, ultimamente attraverso il piano ISS – Insegnare Scienze Sperimentali – e il Piano Operativo Nazionale Educazione Scientifica offerto dall’INDIRE per le regioni del Sud, di rinnovare la metodologia d’insegnamento delle scienze nella direzione di una maggiore libertà di scelta di contenuti, rinunciando all’enciclopedismo in favore di una metodologia basata sull’indagine, così com’è segnalato dalle Indicazioni Nazionali per i Programmi (sia della scuola dell’obbligo sia della scuola superiore).
Nonostante queste indicazioni, in Europa come in Italia, le esperienze di una didattica delle scienze che si ponga come obiettivo quello di stimolare domande più che di memorizzare risposte è ancora minoritaria, e in Italia non sono certo di grande aiuto né il tempo dedicato all’insegnamento delle scienze (tra i più ridotti al mondo nella scuola media) né la mole di contenuti considerati come indispensabili non tanto dai programmi quanto dai libri di testo e dalle abitudini d’insegnamento. In Italia poi le esperienze di formazione in servizio sono lasciate quasi completamente al volontariato o, come in questo caso, alla presenza di progetti Internazionali o Universitari.
È così nato il gruppo di lavoro e sperimentazione di KIS in Italia, a cui hanno partecipato insegnanti di tre scuole elementari, di tre scuole medie e di due scuole superiori, con incontri mensili o bimensili, una cartella dropbox per lavorare insieme sui testi e un gruppo facebook, su cui circolavano verbali, fotografie, diari di bordo e documenti da tradurre e da produrre.
Lavorare in un progetto europeo obbliga, infatti, a “documentare”, attività non molto praticata anche nelle nostre scuole migliori, e a riflettere sistematicamente su quello che si sta facendo. Oltre a utilizzare l’IBSE, infatti, il progetto ci chiedeva di riflettere sui risultati che questo modo di lavorare poteva assicurare, non solo con gli alunni “normali” ma con quelli provenienti da altre culture o che presentavano difficoltà di apprendimento, e di porre attenzione alle differenze di genere, al diverso risultato che la metodologia di lavoro poteva ottenere con i ragazzi o con le ragazze. Il diverso interesse delle ragazze per le carriere scientifiche è, infatti, considerato in Europa un problema, ma lo è anche nel nostro paese? In Italia, nelle facoltà scientifiche in media il 50% degli iscritti sono ragazze – e stanno aumentando anche le iscrizioni alle facoltà più tecniche, come Ingegneria – mentre in altri paesi sono sotto il 30%.
Questa differenza giustifica l’opinione che l’IBSE vada bene per tutti o è invece un indice di un insegnamento in Italia più teorico che in altri paesi (le ragazze sembrano più a loro agio con i libri che con gli esperimenti) e i risultati sarebbero forse diversi se fosse più ricco di attività di laboratorio? E qual è l’effetto, su entrambi i generi, di una didattica “laboratoriale” ma non necessariamente strutturata in incontri mirati alla “verifica” in laboratorio di quello che si è già studiato ma dedicati all’esplorazione delle domande che sono scaturite da un primo esame di un fenomeno?
Con queste domande in mente gli insegnanti hanno sperimentato per uno o due anni, in situazioni e in scuole diverse, le Pratiche Innovative che avevano prescelto.
Le schede relative alle Pratiche Innovative prescelte, tradotte in italiano, sono riportate in questo speciale, come allegato, mentre gli articoli riportano le riflessioni che sono scaturite dalla sperimentazione in classe e dal dibattito comune: ogni insegnante ha avuto l’opportunità – e ha sentito l’esigenza – di riflettere sui propri risultati e di condividere la propria esperienza e gli elementi più significativi che ne sono risultati.
A giugno 2013, il progetto KIS si è fatto carico di una disseminazione delle proposte sperimentate e delle riflessioni che ne sono scaturite: il 4 giugno presso la Scuola Elementare Leopardi più di 100 insegnanti, di diversi livelli scolari, ha partecipato all’incontro, organizzato assieme al CIDI di Roma e introdotto dal prof. Luigi Berlinguer. L’interesse e la partecipazione sono stati altissimi: tanto che il gruppo ha deciso di continuare a incontrarsi e a lavorare assieme anche dopo che il progetto europeo si è chiuso (luglio 2013).
Negli articoli pubblicati in questo speciale possono essere ritrovati gli elementi emergenti dalle esperienze fatte e dalle riflessioni raccolte, che sintetizziamo qui di seguito:
1. La vera sfida che l’IBSE propone è quella di passare da una concezione dell’insegnamento come “quella pratica che fornisce risposte” a una concezione in cui la pratica è di “permettere di formulare domande”, e “insegnare come si formulano in modo che le risposte possano essere trovate autonomamente” il più delle volte collettivamente. Questo cambiamento di prospettiva è stato per tutti gli insegnanti che hanno partecipato al KIS, ma soprattutto per quelli della scuola elementare, il cambiamento più importante e il migliore “indice di successo”. Come dicono le maestre della scuola Giacomo Leopardi, (la Pratica Innovativa scelta da tutte le scuole elementari che hanno partecipato si chiamava – non a caso– “Chiedersi il perché”), i bambini in questo modo si lanciano, fanno domande e propongono ipotesi, e al tempo stesso imparano a fidarsi, a “sentirsi liberi di esporre le proprie domande, certi che non ci sarà un giudizio sulla ‘bontà’ del loro contributo né da parte dei compagni né dell’insegnante” (Maria Cecilia Caruso), ad aver fiducia in se stessi, nella propria capacità di saper trovare le risposte, criticando ed essendo criticati, ma non giudicati.
2. La sfida non è solo per gli alunni ma è soprattutto per gli insegnanti: non poter prevedere in dettaglio né la risposta né la domanda “li spiazza, toglie loro la terra sotto i piedi” (Valeria Del Bon e Maria Cristina Ruffini) ma al tempo stesso li libera da un “dover essere” o “dover sapere”. Anche gli insegnanti, come i bambini, si rendono conto di “essere liberi di sbagliare” (Roberta Polimeni e Barbara Esposito), che la loro didattica non è più “riproduttiva” ma creativa, e che per creare bisogna provare. Questo “cambiamento del proprio modo di insegnare” (Stefania Pompili) è chiaramente più facile per la scuola elementare, in cui l’insegnante non è ancora diventato l’esperto disciplinare, ma il progetto ha dimostrato la sua fattibilità anche nella scuola media e nella scuola superiore.
3. L’IBSE non è l’unica metodologia proposta dal progetto KIS. Le Pratiche Innovative riguardavano anche l’uso di Internet, la costruzione di “strumenti funzionanti” (come i forni solari), il collegamento con la vita di tutti i giorni, per esempio della Chimica con la cucina, e perfino “scienza e teatro”. Le metodologie si sono integrate l’una con l’altra completandosi e, a volte, come nel caso della sperimentazione nella scuola elementare a indirizzo Montessori, innestandosi su altre con un arricchimento reciproco. Ad esempio, seguendo il metodo Montessori è stata creata una “patente dello scienziato” che permette ai bambini di lavorare da soli o in coppia sugli esperimenti solo dopo aver dimostrato di essere in grado di comportarsi secondo quanto richiesto da un’attività sperimentale. Oltre a modificare l’idea di un laboratorio dove tutti fanno la stessa cosa, il lavoro autonomo proposto dalla Montessori si arricchisce della discussione e del confronto necessari per costruire spiegazioni: “per trovare una “domanda” e cercare la risposta occorre farlo in modo collettivo, perché questo dar voce a tutti i ragionamenti e concordare una risposta “scientifica” rinforza l’idea che tutte le osservazioni debbano essere prese in considerazione“ (Laura Mayer).
4. Non solo le esperienze di laboratorio sono le più utili per capire, ma sono le più interessanti e coinvolgenti per la maggior parte dei ragazzi. Una delle studentesse che ha lavorato sull’energia, durante l’intervista finale, ha detto: “Quando studio sul libro imparo a memorizzare e ripetere, ma non sono mai sicura se quello che sto dicendo è corretto; al contrario, quando ho fatto qualcosa in laboratorio devo solo fare riferimento alla mia esperienza…” (Emiliano Degiorgi).
5. Un ostacolo all’uso di queste e di altre metodologie che richiedono manualità, progettazione, collaborazione, discussione e confronto, è rappresentato da “i tempi” necessari, ma i risultati, in termini di maggiore interesse e maggiore disponibilità degli studenti, sembrano in parte compensare il problema anche nelle scuole superiori (Gaetano Cantarella). Gli insegnanti, come dice Stefania Pompili, hanno imparato via via “a sopportare i tempi lunghi, ad avere meno ansia” e perfino “a concedersi il lusso di rilanciare con le domande alle loro domande, anziché dare risposte”.
6. I risultati in termini di rendimento sembrano positivi, a volte eccezionali (come quando i bambini di Maria Pia Cedrini, in prima elementare inventano un modello di “liquido strano” per spiegare quello che succede quando si mischia acqua e maizena), ma quello che soprattutto sembra cambiato è il rapporto degli studenti con la scienza: più interessati, più creativi, più fiduciosi nelle proprie capacità di apprendere. In particolare i bambini in difficoltà, i “bambini silenziosi” di cui parlano le maestre della scuola Giacomo Leopardi (Liliana Chiappe e Stefania Foggia, ma anche Polimeni ed Esposito), o “i ragazzi iperattivi, disagiati o semplicemente annoiati” (Laura Cassata) hanno mostrato un interesse insperato. Quelli “più timidi, o con difficoltà cognitive, ma anche quelli più vivaci e ribelli in queste attività non convenzionali riescono a ritagliarsi un ruolo importante e a farsi apprezzare” (Luca Dragone).
7. Il progetto ha messo in evidenza la rilevanza della differenza di genere, almeno nella didattica delle scienze: l’attenzione alla questione ha permesso di riconoscere che, anche se negata inizialmente da molti insegnanti (“io non faccio differenze”), e anche se non percepibile in termini di “rendimento” (ci sono ragazzi e ragazze ugualmente bravi in scienze), è invece importante in termini di atteggiamento e di stili di apprendimento e di lavoro: “le ragazze tendono a prendere appunti e rielaborarli mentre la maggior parte dei ragazzi si affida al caso” (Ester Daniela Cardone); “le ragazze temono il giudizio dei pari, sono inizialmente molto più caute, se non addirittura timorose di esporsi troppo, e mostrano … maggior profondità nella fase di rielaborazione e di risistemazione concettuale” (Emiliano Degiorgi). Le differenze aumentano, o diventano più evidenti con l’età, ed è quindi importante prenderle “in tempo”, se non altro per esserne consapevoli e per tenerne conto. “Questa sperimentazione mi ha mostrato che una differenza di genere nell’apprendimento e nell’attitudine verso certe discipline esiste, e non sempre può essere ignorata senza danni” (Laura Cassata).
8. Il progetto ha poi confermato quanto sia importante, per sviluppare e radicare l’innovazione, lavorare assieme: tra insegnanti della stessa scuola – nella scuola Giacomo Leopardi praticamente tutte le insegnanti di scienze erano coinvolte – e tra insegnanti di scuole diverse ma anche di livelli scolastici diversi: “Ci siamo trovate progressivamente a cambiare il modo di affrontare il nostro impegno professionale: abbiamo discusso e condiviso obiettivi, abbiamo confrontato percorsi differenziati per contesti… Ma soprattutto abbiamo affrontato la gestione in gruppo degli imprevisti” (Marina Cherubini). Quello che si è cercato di costruire in questi tre anni, sia nella scuola Leopardi sia nell’intero gruppo KIS, è una “comunità di pratica e di ricerca”, sostenuta dalla fiducia nel confronto con l’altro, nella possibilità di capire meglio il proprio percorso se si riesce ad analizzarlo collettivamente. Per questo obiettivo è stata indispensabile una documentazione che permettesse a chi non era in classe di avvicinarsi all’esperienza “con lo sguardo di occhi altri” liberi dal coinvolgimento diretto, e di proporre interpretazioni e vie da seguire. La presenza dei ricercatori universitari, anche nelle classi oltre che nelle riunioni comuni, ha avuto un ruolo importante – di supporto e fiducia in quello che si fa – nella costruzione di questa comunità, che “ha fornito quella protezione necessaria agli organismi nel loro periodo di formazione” (Marina Cherubini).
9. Il progetto ha permesso di costruire indicazioni e percorsi non solo perle scienze ma anche per altre discipline. L’integrazione tra costruzione del linguaggio e costruzione del pensiero scientifico è stata evidente in tutte le Pratiche Innovative sperimentate, e la collaborazione con insegnanti di altre materie, come nel caso della sperimentazione di “Scienza e Teatro”, è stata un elemento importante di successo. Più in generale, gli insegnanti si sono convinti che “organizzare la classe come un laboratorio dove si discute insieme ponendosi domande dovrebbe diventare un modello applicabile all’insegnamento di tutte le discipline” (Polimeni, Esposito). E questa convinzione, che emerge dal progetto KIS, basata su evidenze e non solo teorica, dovrebbe fornire ispirazione a qualunque proposta di curricolo verticale, dalla scuola elementare alla scuola superiore.
In sintesi, l’innovazione principale che questa sperimentazione ha richiesto è metodologica: le Pratiche Innovative raccolte in altri paesi sono state lo spunto per riflettere sulle modalità d’insegnamento/apprendimento della scienza nel nostro e per cambiarle. I nostri insegnanti hanno lasciato agli studenti un ruolo attivo, evitando quando possibile la lezione frontale, e lasciando loro tempo e spazio per discutere i problemi, per trovare i dati, o costruire gli oggetti, e per trarre le loro conclusioni. Gli insegnanti hanno imparato a “farsi da parte” e a supportare gli studenti nel loro lavoro, cercando di “includere” tutti, per arrivare a conclusioni – anche provvisorie e rivedibili. Gli insegnanti hanno appreso a documentare il proprio lavoro, per poterlo discutere in gruppo e rifletterci sopra e, per avere il tempo di fare tutto questo, hanno dovuto (soprattutto alle medie e alle superiori) imparare a scegliere: dedicare più tempo a pochi argomenti senza accettare la “tradizione” enciclopedica. Soprattutto gli insegnanti hanno dovuto imparare a “non avere sempre la risposta” e a cercarla assieme ai loro studenti; in questo, il potersi confrontare in un gruppo “misto”, con colleghi di altri livelli scolari e ricercatori con esperienze e conoscenze diverse, è stato fondamentale.
In questo percorso, quindi, fondamentale è stato l’atteggiamento degli insegnanti che hanno partecipato: se il progetto europeo ha fornito un contesto e i ricercatori universitari un supporto e uno stimolo, è solo grazie all’entusiasmo e allo spirito critico degli insegnanti che hanno tradotto nella propria realtà idee e ideali, metodologie e contenuti d’insegnamento di altri paesi, che la sperimentazione è stata non solo possibile ma ricca di riflessioni e proposte.
Anche in questo caso, come in molti altri, “la meta da raggiungere è stata il viaggio”, la strada che abbiamo percorso assieme è il principale risultato che abbiamo ottenuto.
Per approfondire leggi lo Speciale “Progetto kidsINNscience”
Michela Mayer ed Eugenio Torracca