Apprendimento non formale (parte seconda)

Rispondiamo alla seguente domanda sostanziale: cosa si intende per ‘apprendimento non formale’? L’apprendimento ‘non formale’ è definito come un apprendimento “non istituzionale, intenzionale, ben strutturato e certificato”.
Nel mio precedente articolo ho avuto modo di dimostrare che questi quattro requisiti sono necessari ad un processo di valutazione che possa tradursi nell’accertamento di ‘competenze acquisite’, attraverso la prassi degli organi collegiali della scuola. Infatti, le attività standard concepite alla base di quello che, da sempre, è considerato l’apprendimento non formale sono tutte quelle attività legate ad una certificazione. Una volta le certificazioni erano piuttosto selvagge e non finalizzate ad una valutazione specifica. Da qualche anno sono divenute essenziali per le graduatorie pubbliche e per l’inserimento nel mondo del lavoro, perché rilasciate da enti accreditati (responsabili della seria acquisizione di competenze). Le certificazioni più celebri sono le seguenti:
1. l’ECDL, la patente informatica del computer (non più solamente base, ma con livelli successivi e più elevati di competenze) rilasciata dall’AICA;
2. le certificazioni per l’informatica superiori all’ECDL come quelle per il Coding o, più in generale, per la programmazione e gestione di sistemi rilasciate dalla Cisco;
3. il PET, la certificazione base della lingua inglese rilasciata dal British Council (ma anche da molte altre note istituzioni internazionali), e le altre certificazioni dei livelli superiori di acquisizione della lingua;
4. le certificazioni analoghe per altre lingue, come il francese, lo spagnolo, il tedesco, il cinese, l’arabo…;
5. le certificazioni dell’italiano per stranieri come quella della Dante Alighieri o dell’Università per gli Stranieri di Siena;
e così tante altre, ma principalmente per le lingue e per l’informatica (ricordate la centralità che hanno avuto nel panorama formativo le tre “i”).

La caratteristica sostanziale di queste certificazioni è determinata dal fatto che il loro programma di lavoro è strutturato e accreditato al MIUR (ad esempio) ma anche dai sistemi di istruzione europei. Insomma, i loro programmi rispondono ai requisiti dell’EQF (European Qualification Framework), rappresentando così dei crediti spendibili in tutta la comunità europea.
Quindi, queste “certificazioni”, universalmente riconosciute, hanno un “intento ben definito” (raggiungere dei livelli base di competenza sia informatica che linguistica) e sono “ben strutturate”.
Non sono, però, istituzionali. E neppure ritenute “conoscenze”. Quest’ultima limitazione è quella spesso imputata alla precarietà del concetto di ‘competenza’. Ma qui si apre una discussione estremamente complessa perché, ancora oggi, non si è capito dove finisce una competenza e si sviluppa la conoscenza (o se quest’ultima consegue o deve precedere la prima), e questa indeterminazione è dovuta al fatto che nel corso del tempo ci si è resi sempre più conto che “le seconde senza le prime sono cieche e le prime senza le seconde sono zoppe” (per parafrasare una celebre citazione di Einstein a proposito della teoria e dell’esperimento).
Uno. E’ vero che le certificazioni non sono istituzionali.
Due. Le certificazioni pongono un problema di democrazia proprio perché non se le possono permettere tutti in quanto implicano un costo. Il semplice fatto che rappresentino un costo, pone un problema di democrazia elementare. Questo costo diventa sempre più oneroso se si pensa che, per avere delle certificazioni ancor più concrete e più spendibili (ovviamente per l’inserimento al lavoro), sarebbe opportuno avere nel proprio curriculum degli stage o dei tirocini presso aziende, università o altre istituzioni sia per l’informatica che per le lingue.
Intanto, una vecchia prassi delle scuole, e connessa alle certificazioni acquisibili da qualunque ente certificato, è quella di considerarle oggetto di valutazione per l’attribuzione dei crediti formativi. In questo modo tutte le scuole hanno favorito le competenze informatiche e linguistiche apprese con una certificazione accreditata. La libertà delle istituzioni scolastiche di assegnare crediti formativi a tante altre attività definite formative dagli organi collegiali (introducendo criteri opportuni) ha, in generale, evitato il problema dell’anti-democraticità insita nel costo delle certificazioni. Ma, essendo comunque attività svolte in orario extracurricolare non erano comunque considerate attività istituzionali.

Quel che è certamente possibile è estendere la definizione di apprendimento non formale ad una situazione mista, semi-istituzionale, con la flessibilità curricolare (ai sensi dell’art. 8 del Regolamento dell’Autonomia).
Ad esempio, si possono introdurre nella programmazione curricolare del secondo biennio delle superiori alcuni moduli dei corsi di ECDL e di Lingua, con il loro programma strutturato ed accreditato. Le discipline coinvolte potrebbero essere quelle dove queste competenze specifiche sono ritenute “direttamente” necessarie. Per l’informatica, ad esempio, potrebbero essere la matematica e fisica, ma anche la chimica e le scienze, dove è essenziale l’elaborazione dei dati ed il calcolo; per le lingue, si potrebbe ovviamente pensare di coinvolgere le discipline di ordinamento come l’inglese e l’italiano, avendo in mente, da un lato, il CLIL e, dall’altro, l’integrazione culturale. Così, pure, la disciplina dell’italiano potrebbe destinare delle ore anche allo studio di un editor come ad esempio il ‘word’ nelle sue implicazioni più evolute (documento master…). Al termine dei moduli inseriti nella programmazione didattica, la scuola, in seguito ad una valutazione mirata, potrebbe rilasciare attestati finalizzati ai crediti formativi, mentre l’ente accreditato potrebbe rilasciare le sue certificazioni a pagamento. Gli attestati servirebbero ad un uso prettamente interno mentre le certificazioni ad un uso esterno. Fondamentale, comunque, è che i crediti, in un secondo tempo, possano consentire di accedere alle certificazioni ed in questo modo si eliminerebbe ogni forma di discrimine.
Molte scuole già operano in questo senso da tempo. Attuare la flessibilità curricolare implica l’adozione di un modello applicativo che consenta di strutturare l’azione didattica sia quando l’azione è di semplice compensazione (a somma zero), sia quando invece è di ordine contenutistica (a somma non nulla). In Experimenta abbiamo introdotto il “modello a shell” e lo abbiamo applicato in più contesti (un caso specifico molto interessante è stato condotto dalla scuola Telesi@ per la compensazione a somma zero).

Approfondimenti:
– A.M. Allega, Apprendimento non formale. Non tutto quello che non è ‘formale’ è necessariamente ‘non formale’, in Education 2.0
– Il sito di Experimenta

– A.M. Allega, Il Modello a Shell e la transizione dal vecchio al nuovo, in Education 2.0
– A.M. Allega, Interdisciplinarietà nel Modello a Shell , in Education 2.0
– A.M. Allega, Integrazione dei saperi nel Modello a Shell, per la cultura della scelta ragionata, in Education 2.0
– Experimenta, Percorsi Didattici Esemplari
Il Giovanni XXIII protagonista di Experimenta 3,

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Immagine in testata di Cesie

Arturo Marcello Allega