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La geografia a scuola

Pubblicato il: 10/07/2019 12:00:47 -


Cenerentola in un mondo globalizzato.
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Quale che sia l’opinione di ciascuno in proposito, è indubbio che i temi dell’ambiente e dei mutamenti climatici stanno assumendo un rilievo sempre maggiore nel panorama delle notizie sui giornali, in TV e sul web e stanno avendo importanti riflessi anche all’interno delle strategie messe in campo dalle diverse forze politiche. Tali strategie, raccolte soprattutto nel campo “progressista”, hanno peraltro conosciuto un inaspettato, vistoso successo in occasione delle ultime elezioni europee, dove, salvo che in Italia, i partiti “verdi” hanno ottenuto risultati particolarmente rilevanti. Né serve sottolineare la centralità assunta dalle questioni legate alla cosiddetta “globalizzazione”, che conduce a una mobilità sociale, economica e culturale di dimensioni mai conosciute prime dell’89. L’attenuarsi delle frontiere, l’incremento degli scambi, la diffusione dell’inglese come L2 universale, soprattutto presso le giovani generazioni, sta costruendo una polis mondiale, le cui mura coincidono sempre di più con i confini della Terra.

Se tuttavia osserviamo tutto ciò dalla prospettiva dell’istituzione scolastica, il panorama non è esente da aporie, in primis il grave affievolimento, se non la scomparsa, dello studio della geografia in pressoché tutti i curricoli. A partire dal ministro Moratti, passando per il ministro Gelmini e per finire alla Buona Scuola di Renzi, abbiamo assistito a una costante diminuzione del tempo-scuola dedicato alla geografia e alla creazione di un ircocervo come la “Geostoria” nel biennio della secondaria di secondo grado, che, se ha sicuramente consentito risparmi di spesa nel bilancio della PI, non ha altrettanto sicuramente favorito la irrinunciabile dimensione culturale del “sapersi collocare nello spazio”, che è essenziale per comprendere le relazioni tra noi e tutto ciò che ci circonda.

È sconcertante, ad esempio, che lo studio geografico dell’Italia resti esclusivo appannaggio della scuola media, che la geografia nelle sue diverse declinazioni abbia assunto una collocazione solo specialistica, caratterizzante alcuni indirizzi (turistico, tecnico-commerciale), perdendo nel contempo il suo precipuo profilo formativo, che andrebbe invece considerato, accanto alla lingua madre, alla matematica, alla musica e alle arti visive, uno dei pilastri su cui fondare, fin dalla scuola dell’infanzia, la crescita culturale e personale degli studenti.

Per la sua natura intrinsecamente multidisciplinare, la geografia dovrebbe tornare a far parte in forma autonoma del percorso didattico, certo non come area di accumulo indistinto e nozionistico di cifre e di dati (comunque essenziali per comprendere), ma come strumento di costruzione di una forma mentis capace di rendere la vista dei nostri ragazzi sul mondo più acuta e più penetrante la loro capacità di leggere i fenomeni.

Se riprendiamo i dati emersi da una statistica di Standard&Poor di qualche anno fa, osserviamo che la quota di popolazione italiana adulta in possesso di competenze finanziarie è appena del 37%. Risultati altrettanto preoccupanti sono emersi da indagini OCSE sugli adolescenti italiani. Tutto ciò a fronte di fenomeni macro-economici che interessano ormai l’intero pianeta e che andrebbero capiti e analizzati nel contesto delle risorse globali. E allora, perché non pensare a introdurre nei curricoli la geografia economica?

Naturalmente, si dovrebbe altresì procedere a una rifondazione della disciplina, che comprenda “la definizione di abilità e competenze, la progettazione curricolare, l’analisi delle fonti e dei documenti, la ricerca e la sperimentazione di percorsi di apprendimento … e che contribuisca a offrire una competenza complessa che possa trovare applicazione nelle più diverse attività della vita umana [1]”. Ciò anche per contrastare il luogo comune di una geografia meramente nomenclatoria, “noiosa” ripetizione mnemonica di filastrocche (“MA COn GRAn PEna LE RECA GIÙ”), spesso invisa ai professori di lettere, a cui viene inopinatamente affidata in molti profili curricolari, i quali, se possono, la sacrificano allo studio della storiografia.

I segnali di un declino delle conoscenze geografiche più elementari dei nostri studenti si fanno sempre più forti. Nella maggioranza dei casi non sanno determinare dove si trovino su questa Terra, quali le loro coordinate nello spazio, come si sono formati monti e valli, perché le città sono nate in un determinato punto e non in un altro e così via. Per dirla in breve, non sono in grado di “orientarsi”. E questo, paradossalmente, in un’epoca in cui gli ausili tecnologici (basti pensare a Google Maps) potrebbero consentire, se non usati bovinamente, enormi progressi nell’apprendimento[2].

Come è noto da numerosi studi, sulla strada dell’ignoranza geografica gli USA hanno fatto da battistrada. Potenza globale come nessun’altra, sono molti tra i suoi cittadini a non sapere, ad esempio, dove si trovi il Vietnam e a ritenere che Israele sia un paese arabo. Dato che gli Stati Uniti esercitano la loro egemonia anche in campo culturale (e la scuola italiana ne sa qualcosa!), non si può non sospettare una lucida consapevolezza nelle scelte. Tirar su generazioni di giovani “on-the road” (ma non nel senso “rivoluzionario” di Kerouac!), che si spostano di continuo, incapaci però di comprendere il qui e il dove delle loro esistenze significa esporle più facilmente alle correnti del grande fiume delle informazioni pubblicitarie e dei mercati.

Non è forse vero che il primo passo per trasformare il cittadino in cliente è proprio quello di renderlo il più possibile mobile, “spostabile” e quindi indifferente al contesto? La scomparsa della dimensione geografica dal percorso educativo mi pare sia quantomai funzionale a questo scopo.

[1] C.GIORDA, L’insegnamento della Geografia e della Didattica della geografia nel nuovo Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, “Laboratorio”, 2011, pp. 33-36.

[2] “Nell’era della tecnologia orientarsi è facilissimo, ma non si ha la cognizione dello spazio e dell’orientamento. Sono queste le vere riforme che servono alla scuola: tutto il resto è palliativo o meglio un contorno vuoto di senso e di significato”, M. BOCOLA, “Tecnica della scuola”, dic. 2018.

Claudio Salone

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