Analfabetismi antichi e incipienti
Commento ad un articolo di Marcello Allega
“Quando giunsero all’alfabeto disse Theuth:
“Questa scienza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria, perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”.
E il re rispose:
“O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria, perché fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”.
(Platone, Fedro, 274 c – 275 a-b)
Dibattito antico, dunque, quello sull’alfabetizzazione su cui Marcello Allega riflette nel suo interessante e opportuno articolo (L’Analfabetismo “incipiente”) qui pubblicato il 13 aprile scorso. Un dibattito nel quale è, secondo me, deleterio introdurre in termini assoluti concetti come quello di “decadenza degli studi”.
Personalmente non ho mai creduto alla pregnanza interpretativa di un concetto come quello di “decadenza”. Basta aprire un qualunque manuale di storia e ci si accorge che, sotto questo aspetto, non abbiamo fatto altro che passare da una decadenza ad un’altra, fin dalla notte dei tempi.
Preferisco invece parlare di passaggi, più o meno bruschi, all’interno di un continuum che va di volta in volta compreso e reinterpretato.
Qui sta la sfida. Da anni si osserva la nascita di “teste diverse”, che, per diventare “ben fatte”, devono essere alimentate in modi radicalmente altri rispetto al passato.
Per fare ciò non basta sostituire al libro cartaceo il libro digitale o l’I-phone o la rete, se non si affronta il portato dell’uso di questi mezzi, che non sono solo più efficienti e “friendly” per i nativi digitali, ma determinano nuove premesse, nuove motivazioni, nuove forme di apprendimento e di pratica dello studio.
Storicizzare bisogna, senza feticci. Se non si riprende il discorso alle radici, se non ci si interroga sui fondamenti della scuola del futuro, come in buona sostanza invita a fare Marcello Allega, ma si continua a parlare come se i presupposti stessi della scuola non siano venuti trasformandosi radicalmente e con grande rapidità in questi ultimi due decenni, si manca l’obiettivo e si finisce per lamentarsi ed esercitare la comoda professione dei laudatores temporis acti.
Allega dice – naturalmente in senso generale: “nessuno vuole più studiare, nessuno si pone neppure il problema della motivazione perché non essendo più considerato, lo studio, un vantaggio sociale, non ci si chiede il perché potrebbe avere senso studiare. Insomma, studiare è una fatica inutile non riducibile all’assenza di una motivazione.” Ne consegue quello che lo stesso Autore definisce come “analfabetismo incipiente” in quanto “incipit di un modello di vita”.
Qui si è al cuore del problema. Questo particolare analfabetismo “incipiente”, come va interpretato? Si tratta di una forma di degrado culturale tout court, di una fase tutta negativa da superare, oppure il segnale di nuove forme dell’apprendere? La crisi delle istituzioni scolastiche, non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale, è sempre più evidente (vedi le frustrazioni derivanti dai risultati OCSE-PISA). Se non vogliamo che il processo in corso si sviluppi spontaneamente e brutalmente, causando sperequazioni sempre più vistose (tale processo è già visibile negli Stati Uniti, dove il sapere “alto”, critico e “astrattivo”, tende a rifugiarsi in luoghi ristretti, dove si concentrano quasi tutte le risorse, lasciando che il resto dei percorsi formativi si fermi, più o meno, alla “mera alfabetizzazione”. Si considerino, ad esempio, i grandi centri di ricerca, come l’MIT, Yale e, di contro, le numerose Teaching Universities statunitensi).
Dobbiamo pensare su un orizzonte politico e culturale ampio. Quale modello di scuola vogliamo perseguire? Quello in cui assume centralità il teaching for testing, in cui “le soft skills sono più ambite, da una famiglia e da un’azienda, rispetto ad un qualunque studio scolastico (anche il più avveniristico)”? Come affrontare il vistoso fenomeno della “esternalizzazione della memoria individuale”, per il quale è difficile rispondere agli studenti che ci chiedono a cosa serve tenere a mente testi e procedure, quando basta avere uno smartphone collegato a internet in tasca e tutto lo scibile umano è a nostra disposizione “in tempo reale”? Il declino del “bisogno di astrazione”, acutamente colto da Allega, anch’esso “incipiente”, va contrastato con la riaffermazione dell’astrazione stessa come valore irrinunciabile o va considerato il segmento di un disegno futuro di sviluppo di cui non riusciamo ancora a cogliere i contorni?
Platone considerava l’alfabetizzazione, “incipiente” nel IV secolo a.C., un fenomeno deleterio, che avrebbe impedito l’acquisizione della vera sapienza. Dopo secoli di identificazione della cultura con il libro si stanno forse affacciando forme nuove – e antiche – di “analfabetismo”?
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Claudio Salone