L’Analfabetismo “incipiente”
L’analfabetismo è noto nelle sue tre forme più studiate: tradizionale, di ritorno, funzionale. L’analfabetismo incipiente ha radici profonde, intanto, perché ovviamente si è sviluppato sull’humus delle altre tre forme ‘classiche’, ma soprattutto perché anticipato da altri importanti fenomeni, più volte misurati, come la comparsa e la crescita dei NEET, i dati deprimenti sulla lettura e scrittura, la piaga della dispersione scolastica, del drop out e dell’esclusione.
L’insieme di tutti questi fattori porta ad un fatto inequivocabile, constatato in tutte le realtà scolastiche (e basta intervistare docenti fuoriclasse – ce ne sono tanti – che hanno sempre saputo vitalizzare anche la materia inanimata, oggi, purtroppo, sull’orlo di una crisi nervosa, o chi, come me, ha presieduto per alcuni anni Commissioni di Esami di Stato di Licei classici e linguistici): nessuno vuole più studiare, nessuno si pone neppure il problema della motivazione perché non essendo più considerato, lo studio, un vantaggio sociale, non ci si chiede il perché potrebbe avere senso studiare. Insomma, studiare è una fatica inutile non riducibile all’assenza di una motivazione.
L’analfabetismo incipiente è determinato dalle “conseguenze” del non leggere, scrivere e studiare sul sociale (non più solamente sulla persona); è definito dalla disaffezione allo studio, da subito, quindi incipiente, è l’incipit di un “modello di vita” e, quindi, non solo la defezione allo studio. Ad esempio, le soft skill sono più ambite, da una famiglia e da un’azienda, rispetto ad un qualunque studio scolastico (anche il più avveniristico).
Il crollo principale indotto dall’abbandono dello studio – spiegano le neuroscienze – è il deterioramento cognitivo fino alla sua inibizione. Oggi assistiamo, nelle scuole superiori, a ragazzi semplici, onesti, sani, rispettosi, ma assenti (potremmo dire ‘vuoti’, inteso come vuoto quantistico, ricco di una ‘infinità caotica’ di forme di materia e energia), senza contenuti e senza interessi (perché soffocati dal caos disorientante), soprattutto nel senso di non volersi mettere in gioco, nonostante gli infiniti stimoli. Purtroppo, siamo a conoscenza che, altrettanto, si ha, se si guarda alle famiglie, ai politici locali, ai manager delle aziende (micro e piccole, quindi, locali) come mostrano i dati sui titoli di studio acquisiti e sulle percentuali di lettori, come dire, attivi. Insomma, complessivamente è divenuta sistematica e sistemica la disaffezione alla cultura e all’istruzione, che con un immediato e interattivo ‘atto invasivo’ ha forgiato le condizioni di contesto e ambientali per la crescita e la (in)sensibilità dei ‘nativi digitali’ all’istruzione. Se prima si aveva un problema di motivazione, oggi, invece, la causa è più profonda perché il nativo ha un’alternativa accattivante, quella delle tecnologie digitali.
Come già sottolinea G. Sartori in un suo recente articolo di fondo sul Corriere a proposito della definizione di democrazia, “la qualità dell’uomo è nel suo intelletto e l’azione che lo determina ed eleva è l’astrazione”. La capacità di astrarre dal contingente e cogliere il livello organizzativo superiore, il senso più esteso, se non, propriamente, universale delle cose (si pensi, ad esempio, alle leggi fisiche). Questa necessità all’astrazione sarebbe sempre stata un bisogno primario dell’uomo (elemento di distinzione nella catena dell’essere). Oggi, credo che il bisogno di astrazione non sia più un bisogno primario dell’uomo e, meno che mai, del nativo digitale. Forse, un bisogno indotto, certamente, secondario. Ed è proprio in questo abbandono del bisogno di astrazione che si alimenta la radice dell’analfabetismo incipiente.
Si capisce bene, quindi, che tutto questo accade a prescindere dalle modalità con le quali l’istruzione si pone (laboratoriali, in alternanza, peer to peer, cooperative learning,… – si veda “I paradossi dell’istruzione”, in corso di pubblicazione su questa rivista). A tale proposito, è il caso di osservare che la storia delle rilevazioni sugli apprendimenti, sin dagli anni settanta con l’IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievements) fino alla chiusura del secondo ciclo PISA 2015, attraverso il succedersi di diverse istituzioni di varie dimensioni sovranazionali per oltre quarant’anni, ha riscontrato più volte gravi criticità fino al raggiungimento della certezza che occorre mettere mano ai contenuti disciplinari: “deeper learning: knowing what and knowing how” (lo spot di Rod Bristow, presidente del Gruppo Pearson) o la celebre lettera di un nutrito gruppo di accademici provenienti da diverse università internazionali ad Andreas Schleicher, ispiratore e Direttore di PISA, nella quale si contestano diverse incongruenze sostanziali che minano la coerenza e l’efficacia del progetto PISA in roars online).
Insomma, almeno per quel che riguarda l’Italia, è assente un episteme di base (o, meglio, un sistema di epistemi) che permetta di riscrivere il curriculo in uscita. Il centro del tutto è il curricolo. Il curricolo è l’epicentro di una rivoluzione culturale (già stravolto dall’invasione del mondo digitale). Occorrono nuovi modelli culturali dei contenuti disciplinari. C’è chi tira dritto facendo sempre le stesse cose, convinto che il problema sia sempre altrove, e chi si considera inabile alla ricerca con la imperitura vittoria dell’ignoranza. La ‘Buona Scuola’, o una scuola buona qualunque, deve avere un modello culturale ispiratore ben definito e ben articolato. Abbiamo molto lavoro da fare e la presente legge 107 (che lo mostra e lo dimostra) potrebbe essere un buon punto di inizio se si definissero rigorosamente i concetti di autonomia e di alternanza, di curricolo e di formazione in relazione ad un modello culturale che identifichi precise finalità in uscita (come una volta faceva il vituperato modello Croce-Gentile, che nessuno di noi rimpiange). Ricordo una battuta di Aaron Buttarelli (Dir. Ed. Scuola della Mondadori): “Se volessimo sostituire il modello dei libri di testo classici, macchina perfettamente organizzata che ha formato generazioni, con libri digitali, dovremmo avere almeno una macchina altrettanto efficiente”. Il caos (liberalizzazione dello strumento) non è una proposta. Un serio tentativo (in progress e ancora in nuce) è proposto da Myxbook, progetto patrocinato dal MIUR.
Per approfondire:
A.M. Allega, “Analfabetismo: il punto di non ritorno”, Herald Editore
Arturo Marcello Allega