La scuola di passaggio
Un recente articolo di Ermanno Puricelli (L’importanza di una “scuola di passaggio”, Scuola & Didattica n° 7 del 15 novembre 2009) ha cercato di riportare l’attenzione distratta del mondo della scuola verso quel segmento medio che deve ancora trovare la sua reale missione e soprattutto deve trovare il suo reale motivo di esistere, schiacciato com’è tra una Scuola primaria che sempre di più si sente “elementare” e una Scuola secondaria di secondo grado che sempre più vuol continuare a sembrare una scuola “superiore” (nel senso forse di “Superior stabat lupus”). Io credo che si possa tentare di modificare l’ordinamento per altre cento volte senza venirne a capo, se prima non si decide qual è la missione della scuola “media”: occupare laureati, occupare adolescenti, occupare tradizione, occupare il passaggio dall’infanzia all’adolescenza piena, occupare…
Il dibattito sulla scuola media è reso svogliato dall’attesa del cataclisma che dovrebbe toccare le superiori e dal sospiro di sollievo per il mancato cataclisma che poteva toccare le elementari. L’irrigidimento dell’ordinamento e il ritorno a un tempo scuola standardizzato e legato alle classi di concorso e non alla progettualità delle scuole ha irrigidito anche la fantasia delle scuole medie, orientatesi verso la punizione di ciò che non si può punire (la degenerazione della società giovanile che devia) e il ritorno a un rigore passato (che se anche ci fosse stato non potrà esserci più). L’armonizzazione delle Indicazioni della Commissione Bertagna e quelle della Commissione Ceruti non incanta più nessuno e gli insegnanti tornano ai Programmi ministeriali, che – benché abrogati – sono una solida coperta di Linus a difesa dal freddo delle incertezze curricolari. E questo è il punto centrale della crisi: una scuola che si sente secondaria che deve progettare un ciclo primario.
La stagnazione che ha toccato ricerca e innovazione didattica nella Scuola secondaria in genere si sposa con un’idea statica di scuola e di sapere, che con la mentalità dei “nativi digitali” ha poco o nulla a che vedere. I saperi obsoleti non aiutano a leggere il mondo reale e senza attrezzatura sociale ci si deve accontentare di quella familiare, che molto spesso è migliore, ma non per tutti. Questa però è una storia un po’ vecchia: i più ricchi spesso sono anche i più infelici, ma anche quelli che stanno nella parte migliore della società. Se la scuola non fornisce mezzi di lettura della realtà quei mezzi ogni persona deve farseli da solo, magari per sopravvivere in una scuola noiosa e datata, spenta sotto la stanchezza di ex studenti degli Anni Settanta che da quel tempo hanno smesso di studiare.
Il plumbeo scenario però è reso confortante da almeno due motivi: i ragazzi rimangono svegli, attivi, partecipi nonostante la scuola (non tutti, ma molti), nel grande mare dei docenti-impiegati ci sono anche molti (non tanti) fior di professionisti, che sanno quello che fanno, come lo fanno e perché lo fanno. Voglio dire che il sistema è collassato, ma le individualità forti no: sulle individualità si regge la scuola italiana. Le individualità dei docenti e le individualità degli studenti. Questo individualismo personalizza da solo una struttura vecchia resa fatiscente da un Paese e da un Governo che guarda quel mondo con scetticismo. E questa personalizzazione è ciò che crea le eccellenze, ma anche le grandi differenze. Che poi vanno a sedimentarsi nella società.
Solo recuperando collegialità, innovazione e ricerca la scuola media troverà lo spazio necessario per vincere la spinta della formazione degli adolescenti. Ma questo è l’obiettivo, non il punto di partenza.
Stefano Stefanel