La rinascita della scienza nel Seicento
Roma si rimise a stento dal terribile sacco del 1527. La sua popolazione, che ai tempi di Leone X (1513-1521) sfiorava 90000 abitanti, nel 1555 non raggiungeva ancora i 50000. I papi Sisto V, Paolo V e Urbano VIII diedero inizio a imponenti costruzioni e a opere pubbliche che diedero alla Roma secentesca l’aspetto caratteristico ancora oggi evidente. Dalla metà del ’500 alla metà del ’600 si contano ben sedici papi. Essi continuarono a difendere la Chiesa dall’offensiva protestante e a proclamarsi sovrani temporali dello Stato pontificio. Lo stato aveva una struttura singolare: tutto ruotava intorno al colossale organismo curiale (un proverbio diceva che la parola del papa vivo valeva più di quella di cento papi morti). I papi venivano eletti quasi sempre in età avanzata e spesso la durata del loro regno era troppo breve per consentire un’azione politica di ampio respiro. Tuttavia il fasto di Roma papale secentesca si ergeva sulla base di una generale condizione di miseria. In questo periodo, per contrastare la propaganda protestante e per controllare la diffusione di idee contrarie alla religione ufficiale si sviluppò l’organizzazione della censura sui libri. La diffusione della “buona stampa” (i primi stampatori riuscivano a tirare sì e no 300 pagine al giorno) aveva l’obiettivo di rafforzare un “corpo sano” contro eventuali infezioni che in quell’epoca provocavano a Roma una elevata mortalità, come se solo la cultura e lo studio potessero migliorare lo stato di salute del popolo. Nel clima della Controriforma si pensava che anche l’indagine sulla natura dovesse essere vincolata alle affermazione dei Libri Sacri.
Le idee di Galileo Galilei che si erano diffuse nel 1600 determinarono una certa instabilità nella cultura radicata di quel periodo. Galilei affermava che “chi ha gli occhi nella fronte e nella mente di quelli si deve servire come scorta”; egli sosteneva inoltre che “è bene studiare Aristotele, senza tuttavia sottoscrivere ogni suo detto”. Per lo scienziato la conoscenza della natura non si doveva basare né su Aristotele né sulla Bibbia, ma sull’osservazione diretta e la precisa misurazione dei fenomeni. Pur non intaccando i principi del cattolicesimo, le idee di Galilei erano in quel periodo rivoluzionarie e contrastavano con quelle della maggior parte degli intellettuali che erano dediti alla retorica, alla grammatica e all’astratta erudizione, in quei discorsi cioè che, pur non toccando problemi fondamentali, assicuravano a chi li coltivava, una vita tranquilla. Benché funestata da numerose guerre l’età che inizia con Galileo Galilei è tra le più fertili e creative nella storia d’Europa. La scienza elabora una precisa metodologia e compie, tra il ’600 e l’inizio del ’700 progressi decisivi. La filosofia e la concezione dell’universo vennero dominate da un punto di vista puramente meccanicistico e si assistette a quella che Dijksterhuis ha chiamato “la meccanizzazione della concezione dell’universo”.
Il ’600 è definito l’epoca della rivoluzione scientifica. Cartesio propone di estendere l’interpretazione meccanicistica della natura alla biosfera, il microscopio consente di scoprire i capillari, gli spermatozoi, i globuli rossi, le cellule; Harvey rivela la doppia circolazione del sangue, Pascal fonda le scienze statistiche, Newton e Leibniz procedono a una prima fondazione del calcolo infinitesimale. La scienza sperimentale non è più una riproduzione dell’esperienza ma una rielaborazione dell’esperienza attraverso le fasi del metodo scientifico: osservazione dei fenomeni, formulazione delle ipotesi e loro verifica mediante la sperimentazione. In questo scenario europeo la città, come centro di commerci e di attività produttive rappresenta una creazione della borghesia. La cultura stessa può essere intesa come strumento necessario per farsi strada nella vita sociale, ma anche come esigenza di autentica elevazione spirituale. Il borgo o città costituiva il vero centro dell’esistenza del ceto medio. In esso, durante il periodo barocco, emerse un nuovo comportamento morale e sociale e cioè l’uomo istruito i cui studi (sia da dilettante che da professionista) erano caldamente raccomandati da manuali autorevoli.
Nel ’600 gli “speziali” si riunivano in corporazioni e si diedero alcune regole di formazione. Per dedicarsi alla cura delle malattie era necessario fare otto anni di tirocinio presso uno speziale di rispetto e di fama, avere inoltre requisiti morali per differenziarsi dalla massa dei “cerretani” i ciarlatani, cioè i medici di strada. Questi ultimi attiravano il popolo e la loro credulità propinando unguenti, sciroppi, pillole e decotti che, secondo loro, avevano il potere di guarire le più svariate malattie. Con alcune leggi si cercò di costringerli a denunciare le formule dei loro prodotti e a fabbricarli addirittura davanti agli occhi di “controllori”. La medicina compiva i suoi primi progressi e nascevano forme di deontologia riguardanti i prodotti semplici e composti che potevano così essere preparati e venduti dagli speziali.
Nel ’600 la scienza, così come noi la intendiamo oggi, non era ancora nata e ricerca e scienziati non esistevano ancora, ma quanto avvenne fu il risultato cumulativo di un quotidiano processo di piccola sperimentazione a opera di un gran numero di artigiani di cui oggi, per lo più, ignoriamo il nome. Nel XVII secolo quasi ogni scienziato era anche un artigiano, in grado, per esempio, di intagliare le lenti; lo stesso filosofo Spinoza fu intagliatore di vetri ottici. Nella Roma secentesca arrivarono le idee innovatrici dall’Inghilterra e dalla Francia, dove venivano fondate la Royal Society (1662) e l’Accademia delle scienze (1666). Il famoso cartografo Coronelli capovolge l’antico motto “ne plus ultra” (non si vada oltre) in “plus ultra” (oltre ogni confine). Nel 1711 Giovanni Maria Lancisi, medico personale di papa Clemente XI fonda a Roma la prima biblioteca pubblica di carattere scientifico. La biblioteca consentirà ai medici e tirocinanti di affinare le loro conoscenze e di metterle in pratica nell’Ospedale S. Spirito dove è situata la stessa biblioteca. Il medico, in quel periodo, anche se cominciava ad avvertire la necessità di ricercare le cause di una malattia, era ancora soggetto a una cultura generale permeata di giurisprudenza, filosofia e astronomia. Permangono gli schemi di una medicina millenaria in cui la fonte di conoscenza è il libro e non la natura. I medici dei ricchi avevano come riferimento i testi di Avicenna, il più grande pensatore arabo del XI secolo. Egli, oltre ad aver scritto il “Canone di Medicina” (trattato raccolto in cinque libri che rappresentava la sintesi delle dottrine di Ippocrate e Galeno con i fondamenti della filosofia di Aristotele) lascia come testimonianza delle proprie teorie il “Libro della guarigione” in cui studia le malattie e i possibili rimedi.
La professione del medico nel ’600 dipendeva completamente dal bagaglio di nozioni che lo stesso aveva studiato sugli antichi testi. Tuttavia la necessità di offrire cure efficaci ai malati di peste, di sifilide e febbri malariche, fa nascere, attraverso l’osservazione diretta degli ammalati, un nuovo approccio metodologico e scientifico. In contrasto con i pilastri delle antiche concezioni i chirurghi sperimentavano nuove pratiche e nuovi strumenti (matula, lancette da salasso, clisteri ecc.). Il vincolo che esisteva tra la scienza che appartiene alla sfera del conoscere e la tecnica che appartiene alla sfera dell’azione fece crollare la barriera plurimillenaria che separava l’indagine puramente teorica dalle attività pratiche e manuali. Possiamo dire che nel ’600, grazie al contributo di Galilei e di filosofi e ricercatori di tutte le nazioni europee, viene fondata la scienza moderna.
Laura Alberico