Quando non si parla la stessa lingua

Quando si parla di alfabetizzazione nella scuola si parla di una problematica complessa.
La scarsa formazione della maggior parte del personale docente influisce negativamente sul rendimento di un numero sempre maggiore di allievi non italofoni e sui loro risultati scolastici.
In molti casi queste situazioni portano a un abbandono dei banchi scolastici subito dopo il termine della scuola dell’obbligo.

Negli istituti si cerca di organizzare dei brevi corsi di alfabetizzazione in ore extrascolastiche, ma spesso i risultati non sono all’altezza delle aspettative e delle necessità. Molti allievi restano dunque silenziosi e in attesa del suono della campana in fondo alle aule. Gli stessi vengono spesso marchiati come svogliati.
Eppure le scuole investono fondi per l’alfabetizzazione di questi allievi. Dove sta l’inghippo, allora?

Il processo di apprendimento di una lingua straniera si basa principalmente (come del resto l’apprendimento in sé) sulla relazione: tra docente e discente, tra discente e il gruppo dei pari e tra il discente e l’ambiente che lo circonda.

Non basta dunque insegnare “come si dice” questo o quello o ”come si scrive”, bisogna partire dalla comprensione della difficoltà di partenza dell’allievo che, strappato al paese d’origine, potrebbe non aver voglia e non sentirsi motivato a interagire con dei perfetti estranei. Maturare dunque una sensibilità e un’attenzione nei loro confronti.

Importante è, a questo proposito, anche il coinvolgimento dei coetanei. Se l’allievo entra in empatia con un suo pari è stimolato a imparare la nuova lingua, a farsi capire.

L’ambiente scolastico deve appunto porsi come accogliente. In molte realtà scolastiche l’arrivo di alunni stranieri, anche in corso d’anno, è vissuto come un grosso problema, un freno alla programmazione.

Questo deriva dal fatto che il personale docente andrebbe formato sulla tematica dell’alfabetizzazione per essere pronto e non preoccupato.

Una riflessione sulla valutazione di questi allievi meriterebbe un capitolo a parte.

Imparare una lingua straniera e riuscire ad arrivare a un livello A1/A2 richiede tempo. Chi si è recato in una scuola d’inglese e ha chiesto informazioni sulla durata dei corsi, sa che per raggiungere ogni livello devi frequentare un corso di un anno o due! Allora perché non dare anche ai nostri allievi lo stesso tempo? Perché le loro schede di valutazione non rilevano solo il raggiungimento del livello di comprensione e uso della lingua? Perché li valutiamo in tutte le materie?
Lasciamo che apprendano con tutti gli strumenti che intendono usare: la penna, il quaderno, i libri, il gioco e a volte anche tramite atteggiamenti oppositivi. Dietro quei no si nascondono paure, stanchezza e sofferenza.
Diamo loro tempo.

Temi quali l’accoglienza e l’inclusione meriterebbero dunque grande attenzione.

Da anni non esistono più classi sperimentali, dove ricercatori e insegnanti possano appunto sperimentare nuove tecniche e percorsi su queste e altre tematiche.

Solo le buone pratiche e l’esperienza di docenti nelle scuole con elevata presenza di allievi provenienti da Paesi stranieri permettono ancora di produrre risultati.

Anche la normativa sull’inserimento di questi alunni nelle classi andrebbe rivista. Per quanto si lavori sui Protocolli d’accoglienza per gli alunni stranieri, nelle scuole, la normativa risulta in alcuni casi d’ostacolo per il buon inserimento di questi ragazzi.

È urgente allora una riflessione sul tema con proposte vere, come la collaborazione tra Università e scuole, che porti al contempo alla sperimentazione di pratiche e di modelli per il prossimo futuro, per arrivare ad avere nelle nostre scuole personale docente specializzato e corsi intensivi per gli allievi, insieme a educatori e specialisti del settore.

Dezia Tallarico