Le parole che uccidono: il bullismo e l’urgenza di un nuovo “alfabeto emotivo”
Sentiamo parlare di bullismo ormai da tanti anni, ma quando viene alla ribalta della cronaca un gesto estremo come il suicidio ci domandiamo se e come le parole possano trasformarsi in armi così forti e pervasive da destabilizzare la vita di un adolescente.
Parole usate e abusate in una società che consuma tutto e purtroppo si consuma sacrificando per questo i suoi presupposti valoriali di unicità e ricchezza.
Il mito della sicurezza e della sfrontatezza dei giovani appare una fragile corazza in un mondo di false e ambigue certezze.
Bisognerebbe riscoprire e insegnare il significato della vita e del suo contrario, riempire le parole di amore, vuotarle dal loro inutile e spesso dannoso conformismo che vuole a tutti i costi emarginare e condannare la diversità come fosse una nota stonata.
La morte non è solo una notizia di cronaca che scuote l’opinione pubblica, è un messaggio inascoltato, un dolore inespresso e per questo più insopportabile, un gesto di estrema rinuncia.
Una società che non difende i più deboli è destinata a una mutazione innaturale, una inversione di rotta che porta inevitabilmente alla perdita delle relazioni e del significato che le sottende.
E le parole, in questo contesto, possono diventare armi bianche in mano a bambini prepotenti e irresponsabili.
Il bullismo è una “malattia” curabile se alle parole, queste sconosciute, affidiamo un compito educativo importante insegnando ai giovani un nuovo tipo di alfabeto, quello che restituisce alle emozioni e ai sentimenti il loro senso più profondo e la implicita relazione di appartenenza.
Le parole che uccidono non lasciano tracce visibili e per questo sono più subdole e dannose, inquinano e imbastardiscono la comunicazione, diventano macigni che possono schiacciare, in un attimo, le vite troppo fragili e indifese.
Laura Alberico